A mio parere come spesso accade in campo medico scientifico, il fenomeno cosi detto della perdita di memoria negli anziani è stato troppo banalizzato e semplificato.
In realtà la “perdita di memoria” è quello che vede l’osservatore giovane con la sua struttura cognitiva di giovane adulto.
Un fenomeno psicologico come la presunta perdita di memoria non può essere valutato in modo medico, in modo oggettivo, in quanto la mente non è tangibile, un fenomeno psicologico può solo essere dedotto con argomentazioni interpretative complesse.
La psicologia ci dice che abbiamo una specie di magazzino in cui vengono in qualche modo depositati vari ricordi.
La psicologia dice anche che il numero di informazioni memorizzate in un bambino e in un adulto è significativamente diverso, nell’anziano questo magazzino è molto più ampio rispetto un giovane adulto.
La psicologia dice anche che l’abilità di rievocare queste informazioni dipende da numerosi aspetti, per esempio l’aspetto emotivo risulta essere inibente se le emozioni sono intense, l’aspetto cognitivo risulta essere inibente se le informazioni ricevute sono in contrasto fra loro (questo ovviamente è molto più presente nell’anziano in quanto avendo più informazioni ha maggiore probabilità che esse possano esserci memorie incoerenti fra loro), l’aspetto affettivo risulta essere inibente e talvolta distorcente se le informazioni memorizzate riguardano fatti dolorosi non ben elaborati e via dicendo l’elenco è molto lungo.
Tornando alla memoria degli anziani, i neurologi affermano che questa è decaduta in quanto con la strumentazione in loro possesso (RMN TAC) il cervello appare meno denso e dove c’è minore densità ci sono meno neuroni e dove ci sono meno neuroni ci sarebbe perdita di funzioni cerebrali.
Alcuni psicologi concordano con questo modo di interpretare la cosa altri no.
Io per esempio non concordo in quanto a mio parere la natura ci ha dotato di una base anatomo-fisiologica molto più abbondante di quella che ci serve, e questo in tutti i sistemi, il sistema respiratorio ha una capacità di scambiare ossigeno con un range molto ampio che va dal campione olimpionico (massima capacità) all’impiegato delle poste (minore richiesta in quanto l’apparato muscolare è in uno stato di semiriposo), stessa cosa per l’attività metabolica, muscolare, cardiaca (gettata cardiaca)ecc.
Per il cervello è stato dimostrato che funzioni molto complesse possono richiedere per esempio una percentuale molto bassa di attivazione neuronale (per es calcoli matematici), e che i circuiti neuronali per la maggior parte non sono specifici e la dove vi sono ampie lesioni i tessuti cerebrali non lesi possono adempiere alle funzioni che sembravano perse come per esempio il linguaggio.
Da questo (ma anche da altri fattori che non ha senso evidenziare per non appesantire la lettura di un articolo che vuole essere divulgativo) si deduce che non ci sia un rapporto fra quantità (densità del tessuto cerebrale) e funzioni cognitive possibili.
Ma allora perché dal giovane è più facile avere un informazione che ha memorizzato mentre nell’anziano è più difficile?
Per esempio un numero di telefono, che fino a qualche anno prima l’anziano ricordava con facilità.
Prendiamo come esempio un numero di 10 cifre (il n° di un cellulare), essendo maggiore di 7 cifre non può essere ricordato nella memoria a breve termine, ma va memorizzato in quella a lungo termine.
Escludiamo che questo numero abbia qualche valenza emotiva, affettiva, cognitiva che ne inibisca la rievocazione.
Se chiediamo questo numero a un giovane anche dopo un anno il giovane lo rievoca facilmente e senza sforzo (per esempio il numero di telefono della propria famiglia) mentre è più improbabile che l’anziano lo riesca a rievocare, però poi accade che nell’anziano in un altro momento, per esempio il giorno dopo se lo ricordi, quindi non possiamo dire che è una memoria che è andata persa, possiamo solo dire che per un anziano è più difficile rievocare quando vuole, un informazione memorizzata precedentemente.
Questo è il punto, non possiamo dire con certezza che c’è stata una perdita di memoria ma solo che c’è stata una perdita della capacità di riportare in memoria un informazione.
Possiamo affermare che nell’anziano ci sono molte più informazioni e quindi possono essere simili fra loro quindi più difficilmente discriminabili, nel giovane questa discriminazione è più facile in quanto ha in memoria meno informazioni.
Possiamo affermare che nell’anziano emergono spontaneamente dettagli di memoria (per esempio autobiografici) mentre nel giovane la rievocazione è più volitiva, cioè decido di ricordare una cosa lo posso fare, nell’anziano questo è deficitario, ma nell’anziano emergono frequentemente e spontaneamente dei ricordi che l’anziano non ha voluto ricordare, e questo è deficitario nel giovane.
I ricordi che emergono spontaneamente possono avere la caratteristica di attivare una ricerca di significato (stile cognitivo semantico).
I ricordi che richiedono una rievocazione volitiva possono avere la caratteristica di mettere in atto un comportamento o una azione precisa volta a uno scopo.
Quindi possiamo solo dedurre che lo stile cognitivo in un giovane, quindi anche il suo modo volitivo di rievocare informazioni, lo predispone a comportamenti attivi, fare delle cose; in un anziano il suo avere rievocazioni spontanee non volute, ed avere un sistema meno efficace nella rievocazione volitiva, lo inibisce nei comportamenti immediati di azione, ma lo predispone a un comportamento di riflessione sul senso delle cose.
A mio parere da tutto questo non si può dedurre un deterioramento cognitivo nell’anziano ma solo un cambiamento cognitivo, come è nella natura delle cose, come accade anche nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, lo stile cognitivo cambia notevolmente e allora perché non dovrebbe cambiare dall’età adulta all’età per cosi dire avanzata?.
Se consideriamo un ottica strettamente monetaria ed economica: produrre grandi quantità di cose che risultino attraenti da potenziali acquirenti; lo stile cognitivo del giovane adulto (azioni efficaci orientate a uno scopo “produttività”) potrebbe trovare una sua più ampia realizzazione e desiderabilità sociale.
Se consideriamo un ottica sociale più di tipo etico, lo stile cognitivo del giovane se affiancato allo stile cognitivo di tipo semantico dell’anziano (qual è il senso di fare una cosa e quale cosa scegliere) trova una sua maggiore realizzazione.
Con tutta probabilità la capacità di discernimento e la capacità volitivo/attuativa non possono coesistere in un solo stile cognitivo, del resto la natura obbliga ad alleanze con esseri viventi molto diversi da noi (ambiente animali) per quale motivo non dovrebbe obbligare ad alleanze fra stili cognitivi in età molto diverse fra loro, mentre l’economia se si vuole scegliere questa strada, obbliga a omologare in flussi di valore finanziario, controllabili, tutto l’esistente, pertanto lo stile semantico diventa qualcosa di ostativo, chiedersi il perché delle cose rende più difficile l’omologazione.
In conclusione la scienza se tale vuole essere dovrebbe prendere le distanze dalle caratteristiche sociali del suo tempo: modello economico versus modello etico, e non prestarsi per esempio con presunte patologie deteriorative che e a volte essa stessa determina magari senza rendersene conto o al fine di un più agevole adattamento all’orientamento storico sociale.
versus Indubbiamente una buona ricerca scientifica non è facile da fare; e in campo psicologico è ancora più difficile perché l’osservatore e l’oggetto osservato coincidono, in altre parole l’oggetto osservato “la mente” coincide con “la mente dell’osservatore” pertanto auto ingannarsi è molto più facile in psicologia che in qualsiasi altra disciplina.
Il ricercatore deve fare i conti con due problemi che invalidano la sua ricerca :
Per esempio l’ipotesi specchio di Giacomo Rizzolati, prevede che esista un’ unità funzionale: il neurone, che determina la specificità della realtà psichica, per lui, conosciuta la funzione cellulare del singolo neurone, si comprende il funzionamento di tutto l’organo: “cervello” e nell’ipotesi specchio sarebbe duplice: motoria effettrice e rappresentativa di una azione motoria, questa “duplicità funzionale” di un’area motoria, è stata definita con il termine “specchio”, per indicare l’ipotesi che l’attività neuronale motoria potrebbe essere localizzata in aree confinate in cui il singolo neurone avrebbe sia la funzione di produrre un determinato movimento, sia la funzione di riconoscere lo stesso movimento prodotto da un altro soggetto, è una aggiunta arbitraria quella di pensare che nel cosi detto “fenomeno specchio” il soggetto riconosca il proprio atto motorio come se si trovasse di fronte a uno specchio.
Dal punto di vista psicologico questo è un errore forte, in quanto gli psicologi sono tutti concordi che sia la funzione imitativa, sia la funzione di riconoscimento nell’altro di qualcosa di simile prevede una distinzione fra se e l’altro, in caso contrario si entra in patologie psichiche dove il sé è “come disintegrato” in altre parole il “fenomeno specchio” è presumibilmente più affine alla schizofrenia, dove la distinzione fra sé è l’altro potrebbe essere compromessa.
Il termine “specchio” non è un termine adatto per nominare un fenomeno che preveda sia la produzione di un atto motorio che il riconoscimento dello stesso atto motorio, l’atto motorio implica in sé una finalità, per esempio raggiungere un oggetto, il riconoscimento della stessa finalità motoria in un altro soggetto implica la comprensione della finalità dell’atto motorio, e non la visione di un altro soggetto uguale a se stesso.
Se un ricercatore si aspetta di vedere un “comportamento specchio” perché lo ha nominato in questo modo, e vuole confermare la sua “ipotesi specchio” corre il rischio di vedere in tutti i fenomeni psichici degli “specchi neuronali”, senza che questi esistano.
Per fare un esempio qui uno spezzone audio a caso, di una lezione universitaria, di un ricercatore dell’equipe di un noto neurofisiologo Giacomo Rizzolati.
inizialmente dice che due soggetti senza arti superiori attiverebbero gli effettori della bocca e dei piedi che andrebbero a sostituire quelli delle mani, a parte il problema della fRMI che per il 70% produrrebbe una “falsa positività” in termini di attivazione di aree corticali, mi pare un po’ azzardato paragonare l’organizzazione neuronale di una persona con caratteristiche fisiche molto differenti (assenza di arti superiori) a una persona che queste caratteristiche non le ha; dove e come si sarebbe dimostrato che il riconoscimento di un atto motorio: movimento della bocca di un soggetto con gli arti superiori, corrisponde a un riconoscimento nel soggetto senza arti superiori della sua stessa finalità dell’atto motorio?
Sempre nello spezzone audio egli critica una psicologa cognitivista, scettica sulla teoria specchio, dicendo che questa psicologa, non coglie il meccanismo di risonanza motoria di rispecchiamento, ma ovvio noi psicologi non vediamo degli specchi nell’ attività cerebrale, tanto più se cognitivisti, vediamo riconoscimenti, sequenze motorie, azioni finalizzate con un vocabolario che utilizza parole che evocano un’ attività psichica e non oggetti d’uso comune: specchi, cui si attribuisce un qualche senso metaforico non ben definito.
Il termine “risonanza” nell’uso del vocabolario psicologico, descrive più un fenomeno di tipo fisico/acustico, piuttosto che un fenomeno psichico, è la psicologia ingenua che utilizza termini approssimativi e metaforici, tipo “risonanza” per indicare un ipotesi di sincronizzazione ideativa, non la psicologia scientifica.
Ma tornando all’episodio iniziale: quello che si è visto in un laboratorio di neurofisiologia di Parma: a un macaco è stato infilato un elettrodo in un solco cervello (area F5), l’elettrodo è stato collegato a un marchingegno che quando rileva un aumento dell’attività elettrica emette un suono, hanno notato che questo marchingegno suonava, sia che il macaco mangiasse (atto motorio finalizzato) sia che osservasse qualcuno prendere del cibo, anche se il cibo è nascoso.
L’ipotesi specchio dice in modo riduzionistico, che l’unità funzionale “singolo neurone dell’area F5” svolge attività psichica di “produzione di atto motorio” e anche “vede il suo atto motorio nell’altro come se fosse uno specchio”.
E allora? Questo dimostra che i neuroni sono in risonanza? Che tutti i neuroni si specchiano in se stessi? Che l’attività psichica è solo una questione di rispecchiamento? Chiamata con altri termini quale: empatia, imitazione neonatale, ma in quante fallacies s’incorre con questo modo di argomentare? fallacia compositionis? petitio principii? cum hoc ergo propter hoc?
Chi sostiene l’ipotesi specchio,i vede ovunque l’effetto rispecchiamento! e allora? l’area motoria è l’area dell’empatia rispecchiante? dalla corteccia motoria passa tutta la psiche umana? gli affetti rispecchianti, le emozioni rispecchianti del volto, le pulsioni rispecchianti, anche le percezioni sono rispecchianti? Come se tutto producesse un effetto specchio, e poi viene meglio se detto in inglese “effetto mirror” ! E allora è lecito chiederci a cosa serve tutta l’altra parte del cervello, se tutto passerebbe dall’area motoria che garantirebbe questo “effetto mirror”! Su questi presupposti viene tenuto un corso di laurea magistrale in psicologia, dove l’80% dei docenti non ha una laurea in psicologia, ma avremo 100 laureati in psicologia all’anno, formati in questo modo, francamente tutto questo mi pare più affine a una sorta di decadentismo culturale piuttosto che altro, e immagino sia un fenomeno accademico di decadenza culturale in materie psicologiche che non si limiti all’Ateneo di Parma.
Continuando nello spezzone audio, il ricercatore critica una cognitivista inglese dicendo: – quando parla di mirror fa seguire le diapositive del cane di Pavlov che saliva .. e dice che i neuroni mirror, … si tratta di uno dei tanti meccanismi di associazione prevalentemente visuo motorio che troviamo nel cervello, … e i mirror di faccia? (esisterebbero i neuroni specchio che sostengono la mimica facciale) allora lei dice è semplicemente lo specchio è il volto dell’altro, ….. e l’imitazione neonatale?(una ipotesi del 1977, tra l’altro recentemente falsificata in questa ricerca) ….. In mezzo alle ostetriche, al casino della sala parto, al neonato fai vedere il volto dell’adulto ed è l’unico stimolo a cui risponde, ma nell’utero non ci sono altre facce come fa?…. e lei dice è un artefatto, ma se per dimostrare la mia teoria scientifica devo negare l’evidenza empirica! lei dice l’esperienza sensori motoria di un individuo si osserva mentre si esegue un azione, direttamente o in uno specchio, o quando sono viste dagli altri, o quando siamo coinvolti in azioni sincronizzate ……
A parte il tono della lezione che sembra più un arringa a favore dei neuroni specchio, mi stupisco che un neurofisiologo non tenga in considerazione riguardo il fenomeno che avrebbe osservato in sala parto, del neonato che risponderebbe solo al volto di un adulto e non ad altro, di alcune semplici osservazioni sulla maturazione del sistema neuronale dal momento della nascita in poi.
Sappiamo che il cervello di un neonato è pieno di corpi cellulari e poche connessioni, quindi anche la funzione visiva non è formata, il neonato riuscirebbe a vedere meglio ciò che si trova a 20-25 cm dal suo viso (e al ricercatore sui neuroni mirror andrebbe chiesto: ci siamo avvicinati per fare in modo che il neonato dia segni di orientamento al nostro volto?)
Alla nascita l’acuità visiva sarebbe 40 volte più bassa che nell’adulto, come anche la sensibilità al contrasto (di norma è la funzione di alcuni recettori della retina i coni) la fovea del neonato (dove c’è maggiore concentrazione di coni, quindi minor riconoscimento dei dettagli, forma degli occhi, colore…) non è differenziata, e inizia a svilupparsi intorno al 4-5 mese, il cristallino del neonato possiede un alto grado di trasparenza e permette il passaggio di tutte le radiazioni luminose senza assorbimento o riflessione , l’area dove operano i bastoncelli (sensibili al movimento) è un po’ più debole.
Pertanto non è che per caso questo riconoscimento del volto umano sia da imputare al fatto che la conformazione dell’occhio dell’adulto riflette meglio le radiazioni luminose? Stimolo visivo a cui il neonato è più sensibile? E che di quei due pallini di luce (gli occhi) che i neonato vede, il neonato ne percepisca il movimento molto di più di quello che percepiamo noi? E che le labbra essendo più facilmente umide riflettano meglio di altre parti del viso la luce? Inoltre la percezione sarà un’integrazione fra stimoli olfattivi, gustativi… potrebbe anche essere che il neonato riconosca l’odore della madre e il sapore della sua pelle visto che c’è stato per nove mesi dentro…, che si faccia una “mappa tattile” fra la consistenza del capezzolo e le sue labbra, che la associ il tipo di rifrazione degli occhi della madre in quanto legata al piacere della nutrizione, non è per nulla detto che il tutto passi da un sistema visivo ancora immaturo e dalla specificità neuronale ipotizzata dell’area F5, quando ancora le connessioni si devono formare immaginando nell’innegabile funzione istintiva della nutrizione una empatia già consolidata fin dalla nascita sostenuta da neuroni mirror che ancora si devono collegare con altri neuroni.
Concludendo nelle ipotesi specchio dell’equipe di Parma, vi sono a mio parere troppi errori logici, che derivano da un eccessivo bisogno di affermare la propria teoria, che rendono le argomentazioni poco obiettive, poco coerenti con argomentazioni già validate da altri settori disciplinari, fra cui la psicologia cognitiva, lo sviluppo neurofisiologico neonatale ed altro, con il rischio che si entri in una sorta di decadentismo culturale che riguarda la psicologia academica di tipo comportamentisto – frenologico. E come sempre ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, la psicologia agli psicologi, la medicina ai medici, la pedagogia ai pedagogisti.
Oggetto di studio: la psicologia non può formulare misurazioni oggettive in quanto è per sua natura intangibile, questo non significa che non sia reale, è falso pensare che la realtà sia solo ciò che è tangibile e può essere percepito dai sensi per esempio il pensiero non è percepibile dai sensi ma non possiamo dire che non esista, se non esistesse il pensiero non ci sarebbero i progetti, le città, e via dicendo.
“Componenti” principali: possiamo descrivere i costituenti della mente come “insiemi” distinti che in alcuni punti interagiscono, ma non per questo devono essere ritenuti della stessa “natura”, i componenti principali sono: le emozioni, gli affetti, l’ideazione, gli istinti, le pulsioni, i sensi e il movimento. Pulsioni sensi e movimento hanno la necessità di un corpo per potersi estrinsecare.
Di solito la psicologia ingenua confonde:
-emozioni e affetti,
-pulsioni e emozioni,
-ideazione con gli altri componenti, emozioni, istinti, affetti ecc..,
-il fatto che alcuni componenti psichici che necessitano dell’organismo siano in sé “l’oggettività” della psicologia,
– che la risposta verbale o scritta sia il contenuto mentale e non il risultato di un processo,
e molte altre semplificazioni su cui non è il caso di dilungarsi.
In conclusione il costrutto di base è da intendersi come un “movimento” incapsulato in un altro “movimento” a sua volta incapsulato in altri “movimenti” secondo un ordine infinito e intangibile, e in relazione fra loro senza uno spazio e un tempo in base alle caratteristiche distintive dei sette componenti della psiche.
Le cosi dette disfunzioni mentali, così per come sono grossolanamente concepite, per esempio ansia, depressione…, riguardano un componente psichico, es ansia: emozioni, depressione: affetti, ma la mente non è per sua natura scomponibile “in modo anatomico”, per questo motivo spesso la modalità “categoriale” che imita il modello medico, non è adeguata, è necessario avere un modello psichico non medico per poter affrontare i problemi psichici.
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Chi è lo psicologo: lo psicologo è colui che ha acquisito conoscenze molto complesse che gli permettono di elaborare un metodo per interpretare gli aspetti principali, e causativi, ideativi e della coscienza manifesta o latente, alla base di un comportamento o contenuto ideativo.
Perché no?
Da quando si sono sviluppati i social net work il fenomeno dell’intolleranza anche verso pareri difformi, il desiderio di zittire sulla base di regolamenti auto proclamati, e certo autoritarismo tipico del comportamento infantile nell’adulto , è sempre più evidente nei contenuti proposti dai fruitori di internet.
L’elemento psicologico carente in questo processo è principalmente l’empatia.
L’empatia permette di comprendere meglio il punto di vista dell’interlocutore, mettendosi un po’ nei suoi panni, al fine di poter interagire e rispondere in modo più pertinente ai contenuti proposti dall’altra persona.
I canali con cui s’interpreta in modo empatico sono di tipo non verbale, tono e ritmo della voce, postura, espressione mimica ecc.., alcuni sono più abili ed esperti ad interpretare il non verbale ma in generale lo facciamo tutti in modo automatico.
Internet non permette la comunicazione non verbale, infatti le nuove generazioni hanno inventato un linguaggio parallelo per ovviare a questo problema: le emoticon.
Ma le emoticon non possono essere spontanee ed automatiche come invece avviene per il non verbale nel quotidiano, e pertanto spesso risultano dissonanti rispetto il verbale.
Pertanto che succede? Durante la conversazione solo verbale sul web (perchè non si tratta di esposizione letteraria) , viene avvertito a livello non consapevole, che il contenuto è di difficile interpretazione in quanto il non verbale non è presente, questo genera frustrazione e quindi pone l’emozione più sull’insieme delle emozioni attinenti la rabbia, questa emozione che deriva dalla frustrazione condiziona inconsapevolmente i successivi contenuti proposti dal soggetti, seguendo un catena di successioni verbali che via via perdono il senso del contenuto per dar luogo all’istanza emotiva che “non può essere zittita” attraverso l’elusione in quanto si tratta di una istanza emotiva e non cognitiva.
In realtà la cosa è molto più complessa, ma ho voluto divulgare questa schematizzazione nella speranza che possa essere utile a qualche lettore.
Fra la fine dell’ottocento e i primi del novecento, si delinea in Europa una disciplina scientifica: la psicologia, un’alternativa scientifica non medica, all’approccio religioso che si occupa della realtà immateriale della coscienza.
In Italia con l’avvento del fascismo, le cattedre di psicologia nelle varie facoltà universitarie vennero eliminate a favore di un orientamento pedagogista-comportamentista. La psicologia in Italia, continuò a esistere in modo “clandestino”; per poi riemerge frammentata nei vari corsi di studi universitari, solo nel 1971 vengono istituiti i primi due corsi di Laurea in psicologia a Padova e a Roma. Nelle altre città italiane l’insufficiente offerta formativa in altri atenei continuerà ad essere rimpiazzata da diverse materie di studio di pertinenza psicologica all’interno di altri corsi di laurea (es: filosofia). Negli anni ’80 i vari psicologi sentirono la necessità di professionalizzare il lavoro dello psicologo proprio per evitare le varie “psicologie del senso comune” più o meno fantasiose dal punto di vista psicologico, inteso in modo più rigoroso.
Nel 1989 venne ottenuta l’istituzione dell’Ordine degli psicologi, e gli psicologi si diedero un ordinamento della professione rigoroso e scientifico, ciononostante in parallelo a tutt’oggi continua ad esistere una realtà meno seria “lo psicologo fai da te” della psicologia del senso comune, che snobba la pretesa degli psicologi di dare alla psicologia una struttura culturale e professionale scientificamente autorevole, di rendere l’universo “psi” una questione di salute e non di “salvezza dell’anima” basata sulla fede, di considerare la realtà “psi” come una realtà immateriale, il cui approccio debba però essere scientifico, di considerare l’oggetto di studio psi secondo un ottica di massimo rispetto (ogni soggetto è differente dall’altro) non tanto per motivi moralistici ma per motivi scientifici, concetto basato sul principio di indeterminazione di Heisenberg. Questo significa che ogni strategia relazionale di tipo manipolativo viene messa al bando dagli psicologi come “modalità non psicologica” ma pertinente alle relazioni umane, talvolta con rischi “patologizzanti”.
Il codice deontologico degli psicologi afferma in vari punti l’obbligo del rispetto delle idee, orientamenti sessuali, segretezza delle informazioni ricevute, e questo in molti articoli.
Tale tutela della differenziazione individuale precisata dal codice deontologico degli psicologi, ha non solo motivi di correttezza professionale , ma poggia soprattutto sull’evidenza che la salute psichica di un soggetto si fonda principalmente sul rispetto e la scoperta della sua vera e autentica natura identitaria.
Questo si evince anche dalla natura psicopatologica di molti disturbi psichici: scissione dell’io, dissociazione, derealizzazione, reattività emotiva eccessiva, tutti disturbi alla cui origine c’è il mancato rispetto da parte del contesto, della natura identitaria della persona, sia che questo avvenga attraverso modalità manipolative sia a causa di traumi psico-emotivi di natura improvvisa o continuativa.
Questo non significa che il rispetto dell’identità di una persona debba considerarsi una sorta di “demoralizzazione” , la coscienza etica , è ritenuta in psicologia una parte della realtà psichica.
Nel 2009, viene pubblicato il libro di Lanza/Bernam, in cui sono elencati 6 principi su cui si basa la loro teoria sul biocentrismo cito dal testo:
a)PRIMO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Ciò che noi percepiamo come realtà è un processo che coinvolge la nostra coscienza.
b)SECONDO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Le nostre percezioni interne ed esterne sono intrecciate. Sono due facce della stessa medaglia e non possono essere separate.
c)TERZO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Il comportamento delle particelle subatomiche – e per estensione di tutte le particelle e di tutti i corpi – è indissolubilmente connesso alla presenza di un osservatore. Senza la presenza di un osservatore cosciente, esiste solamente uno stato indeterminato di onde di probabilità.
Quando lanciate insieme due sassolini in uno stagno, l’onda prodotta da ciascun sassolino incontra quella dell’altro e produce una sequenza di innalzamenti e abbassamenti del livello dell’acqua rispetto alla normale situazione di quiete. Alcune onde si rinforzano, una con l’altra, per esempio quando si incontrano due creste, altre invece si cancellano reciprocamente, per esempio quando una cresta si incontra con una valle.
d)QUARTO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Senza la coscienza, la cosiddetta «materia» rimane in uno stato indeterminato di probabilità. Ogni universo precedente a un atto cosciente è esistito solo in uno stato probabilistico.
il fisico John Wheeler da poco scomparso (nacque nel 1911 ed è morto nel 2008), che coniò il termine «buco nero», postulò quello che ora viene chiamato «principio antropico partecipatorio», o PAP (dall’inglese partecipatory anthropic principle), secondo cui gli osservatori sono necessari per l’esistenza dell’universo.
e)QUINTO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO La reale struttura dell’universo è spiegabile solamente attraverso il biocentrismo. L’universo è finemente accordato per la vita, e tutto torna perché è la vita che crea l’universo, non il contrario. L’universo è semplicemente l’estensione della logica spazio-temporale del sé.
f)SESTO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Il tempo non possiede una vera e propria esistenza al di fuori della percezione sensoriale animale. È il processo attraverso cui percepiamo i cambiamenti dell’universo
A mio parere il problema principale della teoria è che: senza una definizione chiara di coscienza, si afferma che la coscienza è una realtà materiale.
Un altro problema è che nel libro si afferma che la coscienza debba essere compresa da biologi, fisici, astronomi, con esclusione degli psicologi e degli psicoterapeuti dall’ipotetica equipe di studiosi “dell’ottica bio centrica della coscienza”.
L’errore/orrore principale è quello di ignorare l’esistenza di realtà immateriali, che noi psicoterapeuti sappiamo costituire quasi tutta la realtà della coscienza, un altro errore è quello di ignorare la realtà dell’inconscio, ovvero di quella parte di realtà immateriale che non sempre appare alla coscienza .
Il fatto che tutto sia riducibile a “energia” non spiega il contenuto dei pensieri, l’intensità delle emozioni, la relazionabilità degli affetti, e vari fenomeni della coscienza (e dell’inconscio) ma semplicemente dice che uno strumento rileva che delle attività elettriche (psichiche?) siano presenti o non presenti in quella parte del cervello, e lo strumento è interpretato da un osservatore molto limitato (l’essere umano) che ha una modalità osservativa egocentrica anche se condivisa da altre persone con lo stesso sistema percettivo sensoriale.
Per esempio lo sperimentatore vuole capire la realtà del movimento. Si trova sul pianeta terra che gira attorno alla propria asse a circa 1500 km-h e ha una velocità orbitale di 110.000 km-h circa. Questo movimento lo sperimentatore non lo percepisce, egli si sente fermo su un punto della terra e percepisce solo il movimento da un punto all’altro, che percezione del “fenomeno movimento” avrà lo sperimentatore? Una percezione reale? No solo una percezione ego-riferita, limitata alla sua modalità percettiva.
Per esempio in un altro punto del libro si parla di “libero arbitrio” concetto dottrinale-religioso, riferito alla questione etica, ovvero riferito a ciò che viene definito “buono o non buono” (scusate la semplificazione), ma l’autore fa riferimento alla volontà, ma la volontà, che è una delle tante realtà immateriali della coscienza non ha una caratteristica procedurale, la volontà o c’è o non c’è, la proceduralità deriva dall’attività cognitiva per esempio della pianificazione, la pianificazione non è la stessa cosa della volontà.
Molte sono le confusioni che fanno gli autori quando s’addentrano nel tema della coscienza, avrebbero potuto scrivere questo interessantissimo libro assieme a uno psicologo o assieme uno psicoterapeuta con buona esperienza sul campo, e invece no così scrivono:
“Attualmente, le discipline della biologia, della fisica, della cosmologia e di tutte le loro molteplici ramificazioni di solito vengono studiate da chi sa poco o niente delle altre. C’è bisogno, invece, di un approccio multidisciplinare per raggiungere risultati proficui che includano il biocentrismo.”
Il problema, dicono, è che le varie discipline “materialistiche” sono troppo specialistiche, e… studiare una realtà immateriale come la coscienza solo dal punto di vista materialistico? Questo non è un problema per il buon esito della teoria?
Mi aspetto che, questa sia la premessa, dopo il disastro della chimica (psicofarmaci) per la cura dell’anima, per una nuova proposta disastrosa per la cura dell’anima, quella fisica, che magari cura con interferenze elettromagnetiche così d’assicurarsi un altro buon business per altri 100 anni.
La fabbrica della follia
Nel secolo scorso, lo svedese Arvid Carlsson osservò che il morbo di Parkinson era determinato da una carenza di dopamina in una determinata zona del cervello (la via nigro-striatale del sistema extrapiramidale); da questa osservazione, con grande superficialità, gli psichiatri dedussero, senza mai dimostrare nulla, che i farmaci anti dopaminergici curavano la schizofrenia perché riducevano la dopamina nel cervello.
Lo avevano dedotto solo perchè questi farmaci antidopaminergici inducevano una forma di parkinsonismo (tremori in assenza di movimento), se questi farmaci toglievano i deliri, poichè poi producevano tremore (sintomo del Parkinson) i deliri erano secondo gli psichiatri, causati dall’eccesso di dopamina, ma semplicemente questi farmaci bloccavano ogni tipo di ideazione, il cervello ha funzioni specifiche per via dei circuiti neuronali e non per i tipi di mediatori che sono presenti nel cervello (dopamina, serotonina ecc)
Fu nel 1967 che Jaques van Rossum formalizzo (a suo parere scientificamente ma con un numero interminabile di fallacie logiche) che l’eccesso di dopamina nel cervello causava la schizofrenia.
Ipotesi mai abbandonata dalla maggior parte degli psichiatri, ancor oggi in auge che legittima l’uso anche massiccio di farmaci detti antipsicotici, come per esempio il Serenase, sintetizzato nel 1958 dal Belga Paul Jansen ad oggi il neurolettico più prescritto al mondo.
In realtà già negli anni settanta, questa ipotesi di Jaques van Rossum si rivelò falsa, lo evidenziò Whitaker (USA) che pubblicò sull’organo governativo di ricerca, l’esito dei dati in cui emergeva che i pazienti non trattati con psicofarmaci venivano dimessi prima (recessione spontanea dei sintomi psicotici) e in numero minore andavano incontro a ricadute psicotiche entro l’anno.
Un altro psichiatra americano, dimostrò che la schizofrenia aveva più probabilmente un origine sociale (e psico-traumatica) lo fece creando delle unità abitative di sei schizofrenici in un clima di elevata empatia relazionale, e ottenendo a due anni di distanza un numero significativamente più basso di ricadute psicotiche rispetto al gruppo di controllo di pazienti trattati con psicofarmaci.
Verso il 1977, in Montreal due medici: Guy Chouinard e Barry Jones dimostrarono che gli antipsicotici bloccando sino al 90% i recettori dopaminergici D2, nel cervello, inducevano nel cervello un aumento dei recettori D2 post sinaptici (contrasto biochimico del cervello per vanificare l’azione del farmaco) rendendo il cervello più sensibile alla dopamina, ovvero inducendo assuefazione, e questo come si può chiamare cura della schizofrenia? Se esso stesso potenzia l’effetto della dopamina?Infatti i dosaggi dovevano via via essere aumentati. In definitiva l’alloperidolo (Serenase) è un produttore chimico di psicosi installato nel cervello, appena lo sospendi i sintomi riemergono più acuti di prima.
Anche l’OMS valutò l’esito delle cure psichiatriche con gli psicofarmaci, diffondendo i risultati del 1978: in India e Nigeria due terzi dei pazienti aveva esiti favorevoli (dove solo il 16% si curava con psicofarmaci) nei paesi occidentali solo un terzo ( due terzi assumeva antipsicotici).
Chakos Madeson Gur (USA) dimostrarono che gli antipsicotici aumentano il volume dei nuclei della base e del talamo (le emozioni negative vengono intrappolate senza poter uscire) e diminuiscono i volumi dei lobi frontali (ideazione astratta , volizione, etica) quindi non è la schizofrenia che deteriora cognitivamente ma i farmaci, la perdita del controllo pulsionale è dato dall’ipotrofia dei lobi frontali, cioè dalla cura!
Praticamente l’idea kraepeliana di fine ‘800, che la schizofrenia porta a demenza, viene affermata producendola con sostanze chimiche? La profezia si auto avvera.
Nel 2008 Nancy Andreasen un neuroscienziato americano, afferma senza ombra di dubbio che : quanto maggiore è stato il dosaggio dei farmaci tanto maggiore è stata la perdita di tessuto cerebrale.
Nel 2007 Martin Harrow, dopo uno studio di 15 anni evidenzia i seguenti esiti: dei pazienti non trattati farmacologicamente il 40% era guarito il 50% lavorava, mentre fra i pazienti trattati con i farmaci solo il 5% era guarito e il 64%aveva ancora una sintomatologia psicotica.
Tutto questo è sempre stato più che evidente, almeno per quanto mi riguarda già lo avevo evidenziato alla fine anni ’90, ma la risposta degli psichiatri, mi veniva riportata anche sulla Gazzetta di Mantova, e fu: che i miei erano solo pregiudizi nei confronti degli psicofarmaci, il problema è che il sistema ospedaliero è un sistema chiuso di tipo feudale, la psichiatria ne è l’apice.
Nulla è cambiato da quando cercavo di spiegare perchè gli psicofarmaci potevano solo peggiorare la sintomatologia psichiatrica, in quanto essa stessa era l’espressione estrema di un tentativo di riparare, quasi oniricamente, profonde “ferite” psichiche che il soggetto aveva subito e talvolta inflitto. Ma ancora sono perplessa circa il giustificazionismo e l’indifferenza che aleggia su tanto sadismo. Mi consola però leggere una pubblicazione da parte di uno “psichiatra riluttante” Piero Cipriano, da cui ho tratto alcuni dati. Ma nessuna ammenda da parte dell’attuale psichiatria può essere più credibile dopo l’illusione basagliana. La mente e la coscienza non sono di competenza medica, la storia dei vari abbagli e insuccessi lo dimostra, ma forse serviranno altri 15 anni per poter vedere questa ovvietà scritta da qualche altro psichiatra riluttante, con il solito seguito: il nulla.
Che la questione dello squilibrio chimico nei problemi psicologici sia un’assurdità scientifica è da tempo che in molti lo dicono, ma per esemplificare questo concetto possiamo evidenziare l’aspetto del dolore, la sua intensità o meno e le strutture anche serotoninergiche che lo modulano.
In sintesi: nel “circuito nervoso” dei “neuroni dolorifici” del midollo spinale sono presenti anche sinapsi serotoninergiche, i cui assoni si collegano anche ad un altro circuito neuronale implicato nella percezione del dolore fisico, sempre con sinapsi serotoninergiche: il nucleo rafe magno, a livello del bulbo, quindi la parte appena sotto il cervelletto, non si tratta di connessioni corticali o limbiche dove sono presenti elaborazioni ideiche o affettivo/emotive, ma di strutture per l’elaborazione sensoriale del dolore fisico, il dolore fisico aumenta con l’aumento dell’attività serotoninergica in queste sinapsi, se ti bruci un dito e il dito ti fa male, a livello spinale e bulbare vi sono anche sinapsi serotoninergiche che te lo dicono.
Quindi uno psicofarmaco, detto antidepressivo, perchè capace di attività serotoninergica (quanto dichiarano le imprese farmaceutiche), al momento di una certa concentrazione nel sangue andrà un po’ ovunque, anche a livello del midollo spinale e del bulbo, o no? E che c’entra il midollo spinale o il bulbo con la depressione?
Nessuno psicofarmaco vanta la selettività che si dice avere, e nemmeno la specificità in quanto: i circuiti neuronali la cui integrazione è molto complessa, possono funzionare per funzioni differenti, con gli stessi mediatori chimici, ed è la concentrazione o meno di questi mediatori chimici a livello sinaptico, che da un effetto o l’altro, non la sua presenza ovunque, e in ogni caso un farmaco assimilato e presente in concentrazioni differenti nel sangue, a secondo del metabolismo di una persona non può essere controllato in termini di concentrazione sinaptica e nemmeno è possibile dire a una molecola di andare dove vogliamo che vada.
Quindi se con l’assunzione di antidepressivi aumenta il dolore, questo potrebbe essere un effetto secondario dell’antidepressivo che così specifico per la depressione non è.
L’agire umano è sempre stato caratterizzato da un antropocentrismo gerarchizzato, siamo passati dall’antropocentrismo politico, a quello teologico, a quello biologico.
L’antropocentrismo politico fu quello degli imperatori, per esempio della realtà politica romana ed egizia, dove la punta gerarchica, per esempio il Faraone, si auto attribuiva qualità trascendentali e divine che lo ponevano all’apice della scala gerarchica per superiorità.
Per vincere l’antropocentrismo politico, si creò una via antropo-teo-centrica, per esempio con la religione madre delle religioni afro-occidentali: l’ebraismo da cui è nato l’islamismo e moltissime diramazioni del cristianesimo.
Poi per vincere la posizione teo-centrica, di cui in Italia il medioevo ne è stato l’espressione più significativa, si è creata una via empirica, antropo-bio-centrica, dove l’uomo era messo al vertice della scala evolutiva.
Oggi i modelli occidentali culturali sono ridondanti di questo “empirico-antropo-centrismo”.
Ogni verità passerebbe dall’osservazione scientifica di alcuni umani privilegiati, per presumibile elevata intelligenza e cultura, che sarebbero in grado meglio di altri di conoscere la natura fenomenica del mondo in cui viviamo.
Ma la strumentazione ad oggi nota dimostra che la possibilità percettiva degli umani è molto limitata, per esempio non vedono né uv né infrarossi, e differente da altre specie animali, che per esempio riescono a percepire gli infrarossi e altre onde elettro magnetiche.
Pertanto la logica impone che l’osservazione scientifica essendo osservazione antropocentrica non può spiegare molto in modo obiettivo.
Per esempio il modello medico poggia molto su questo modello empirico-bio-antropo-centrico, e vuole esercitare in modo autoritario il proprio presunto sapere.
Esattamente con la stessa visione antropocentrica di tipo gerarchico che avveniva ai tempi dei romani con il “sacro imperatore”, che è solo sostituito con nominazioni differenti, per esempio l’autorevole premio Nobel, cui tutti devono adeguarsi.
Il modello economico gioca moltissimo su questa predisposizione umana: elargendo risorse la dove desidera aumentare il proprio potere economico.
Quindi ad oggi le attività conoscitive, essendo da un lato: parziali ed autoesaltanti (antropocentrismo empirico-biologico) e dall’altro pilotate da interessi economici (finanziamenti a ricercatori magari compiacenti) non possono pretendere nessuna obbedienza in nome della scienza, ma devono concordare con gli interessati ogni aspetto del loro intervento, in modo privatistico e non nelle istituzioni pubbliche in modo autoritario di cui l’ambito psichiatrico ne è l’esempio più calzante.