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Gli anziani più che perdere la memoria, cambiano il proprio stile cognitivo.

A mio parere come spesso accade in campo medico scientifico, il fenomeno cosi detto della perdita di memoria negli anziani è stato troppo banalizzato e semplificato.

In realtà la “perdita di memoria” è quello che vede l’osservatore giovane con la sua struttura cognitiva di giovane adulto.

Un fenomeno psicologico come la presunta perdita di memoria non può essere valutato in modo medico, in modo oggettivo, in quanto la mente non è tangibile, un fenomeno psicologico può solo essere dedotto con argomentazioni interpretative complesse.

La psicologia ci dice che abbiamo una specie di magazzino in cui vengono in qualche modo depositati vari ricordi.

La psicologia dice anche che il numero di informazioni memorizzate in un bambino e in un adulto è significativamente diverso, nell’anziano questo magazzino è molto più ampio rispetto un giovane adulto.

La psicologia dice anche che l’abilità di rievocare queste informazioni dipende da numerosi aspetti, per esempio l’aspetto emotivo risulta essere inibente se le emozioni sono intense, l’aspetto cognitivo risulta essere inibente se le informazioni ricevute sono in contrasto fra loro (questo ovviamente è molto più presente nell’anziano in quanto avendo più informazioni ha maggiore probabilità che esse possano esserci memorie incoerenti fra loro), l’aspetto affettivo risulta essere inibente e talvolta distorcente se le informazioni memorizzate riguardano fatti dolorosi non ben elaborati e via dicendo l’elenco è molto lungo.

Tornando alla memoria degli anziani, i neurologi affermano che questa è decaduta in quanto con la strumentazione in loro possesso (RMN TAC) il cervello appare meno denso e dove c’è minore densità ci sono meno neuroni e dove ci sono meno neuroni ci sarebbe perdita di funzioni cerebrali.

Alcuni psicologi concordano con questo modo di interpretare la cosa altri no.

Io per esempio non concordo in quanto a mio parere la natura ci ha dotato di una base anatomo-fisiologica molto più abbondante di quella che ci serve, e questo in tutti i sistemi, il sistema respiratorio ha una capacità di scambiare ossigeno con un range molto ampio che va dal campione olimpionico (massima capacità) all’impiegato delle poste (minore richiesta in quanto l’apparato muscolare è in uno stato di semiriposo), stessa cosa per l’attività metabolica, muscolare, cardiaca (gettata cardiaca)ecc.

Per il cervello è stato dimostrato che funzioni molto complesse possono richiedere per esempio una percentuale molto bassa di attivazione neuronale (per es calcoli matematici), e che i circuiti neuronali per la maggior parte non sono specifici e la dove vi sono ampie lesioni i tessuti cerebrali non lesi possono adempiere alle funzioni che sembravano perse come per esempio il linguaggio.

Da questo (ma anche da altri fattori che non ha senso evidenziare per non appesantire la lettura di un articolo che vuole essere divulgativo) si deduce che non ci sia un rapporto fra quantità (densità del tessuto cerebrale) e funzioni cognitive possibili.

Ma allora perché dal giovane è più facile avere un informazione che ha memorizzato mentre nell’anziano è più difficile?

Per esempio un numero di telefono, che fino a qualche anno prima l’anziano ricordava con facilità.

Prendiamo come esempio un numero di 10 cifre (il n° di un cellulare), essendo maggiore di 7 cifre non può essere ricordato nella memoria a breve termine, ma va memorizzato in quella a lungo termine.

Escludiamo che questo numero abbia qualche valenza emotiva, affettiva, cognitiva che ne inibisca la rievocazione.

Se chiediamo questo numero a un giovane anche dopo un anno il giovane lo rievoca facilmente e senza sforzo (per esempio il numero di telefono della propria famiglia) mentre è più improbabile che l’anziano lo riesca a rievocare, però poi accade che nell’anziano in un altro momento, per esempio il giorno dopo se lo ricordi, quindi non possiamo dire che è una memoria che è andata persa, possiamo solo dire che per un anziano è più difficile rievocare quando vuole, un informazione memorizzata precedentemente.

Questo è il punto, non possiamo dire con certezza che c’è stata una perdita di memoria ma solo che c’è stata una perdita della capacità di riportare in memoria un informazione.

Possiamo affermare che nell’anziano ci sono molte più informazioni e quindi possono essere simili fra loro quindi più difficilmente discriminabili, nel giovane questa discriminazione è più facile in quanto ha in memoria meno informazioni.

Possiamo affermare che nell’anziano emergono spontaneamente dettagli di memoria (per esempio autobiografici) mentre nel giovane la rievocazione è più volitiva, cioè decido di ricordare una cosa lo posso fare, nell’anziano questo è deficitario, ma nell’anziano emergono frequentemente e spontaneamente dei ricordi che l’anziano non ha voluto ricordare, e questo è deficitario nel giovane.

I ricordi che emergono spontaneamente possono avere la caratteristica di attivare una ricerca di significato (stile cognitivo semantico).

I ricordi che richiedono una rievocazione volitiva possono avere la caratteristica di mettere in atto un comportamento o una azione precisa volta a uno scopo.

Quindi possiamo solo dedurre che lo stile cognitivo in un giovane, quindi anche il suo modo volitivo di rievocare informazioni, lo predispone a comportamenti attivi, fare delle cose; in un anziano il suo avere rievocazioni spontanee non volute, ed avere un sistema meno efficace nella rievocazione volitiva, lo inibisce nei comportamenti immediati di azione, ma lo predispone a un comportamento di riflessione sul senso delle cose.

A mio parere da tutto questo non si può dedurre un deterioramento cognitivo nell’anziano ma solo un cambiamento cognitivo, come è nella natura delle cose, come accade anche nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, lo stile cognitivo cambia notevolmente e allora perché non dovrebbe cambiare dall’età adulta all’età per cosi dire avanzata?.

 

Se consideriamo un ottica strettamente monetaria ed economica: produrre grandi quantità di cose che risultino attraenti da potenziali acquirenti; lo stile cognitivo del giovane adulto (azioni efficaci orientate a uno scopo “produttività”) potrebbe trovare una sua più ampia realizzazione e desiderabilità sociale.

Se consideriamo un ottica sociale più di tipo etico, lo stile cognitivo del giovane se affiancato allo stile cognitivo di tipo semantico dell’anziano (qual è il senso di fare una cosa e quale cosa scegliere) trova una sua maggiore realizzazione.

 

Con tutta probabilità la capacità di discernimento e la capacità volitivo/attuativa non possono coesistere in un solo stile cognitivo, del resto la natura obbliga ad alleanze con esseri viventi molto diversi da noi (ambiente animali) per quale motivo non dovrebbe obbligare ad alleanze fra stili cognitivi in età molto diverse fra loro, mentre l’economia se si vuole scegliere questa strada, obbliga a omologare in flussi di valore finanziario, controllabili, tutto l’esistente, pertanto lo stile semantico diventa qualcosa di ostativo, chiedersi il perché delle cose rende più difficile l’omologazione.

In conclusione la scienza se tale vuole essere dovrebbe prendere le distanze dalle caratteristiche sociali del suo tempo: modello economico versus modello etico, e non prestarsi per esempio con presunte patologie deteriorative che e a volte essa stessa determina magari senza rendersene conto o al fine di un più agevole adattamento all’orientamento storico sociale.

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Validità dell’indagine dei neuroni specchio sugli uomini con fMRI.

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Spesso i teorici dei neuroni specchio utilizzano per validare la loro teoria, studi con risonanza magnetico funzionale fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), tale sistema viene utilizzato con il tentativo di rafforzare e avvalorare la teoria dei neuroni specchio dopo le note sperimentazioni sui macachi.

In sintesi l’fMRI consiste nel sottoporre la persona a un forte campo magnetico statico, che causa l’allineamento degli spin dei protoni (cariche elettriche degli atomi), i quali si allineano parallelamente o antiparallelamente, questo perché gli spin protonici iniziano a ruotare sul proprio asse. Fornendo energia a livello atomico alla “stessa frequenza” (risonanza) otteniamo che dopo l’impulso dato, i protoni tenderanno a tornare allo stato iniziale (questa variazione è ciò che si rileva e interpreta).

Tramite una bobina si misura la magnetizzazione del piano perpendicolare, al campo magnetico principale, relativa un solo tipo di atomo, per esempio l’ossigeno, (ma si può fare anche per altri atomi, idrogeno, sodio, fosforo) poi tramite un software si traduce il segnale ricevuto in immagini che sono il risultato di “una media del fenomeno misurata in “x” tempo”.

Nel caso la misurazione riguardasse l’ossigeno avremmo come immagine visiva sul monitor, l’aumento o la diminuzione del flusso del sangue ossigenato, anche di piccoli vasi sanguinei (capillari) per il prevalere dell’atomo di ossigeno legato all’emoglobina (più ossigeno più attività rilevata), ma è chiaro che l’ossigeno è un componente molecolare anche di altri tessuti diversi dal sangue.

L’assunto è che dove viene richiamato più ossigeno dev’esserci una maggiore attività neuronale, quindi dove c’è più flusso sanguineo c’è più attività “elettro-neuronale”(potenziale d’azione), quindi più attività cognitiva specifica, assunto discutibile.

In realtà il sangue ossigenato, viene richiamato anche per altri motivi, infiammazione, riparazione dei tessuti, crescita neuronale e in tutti i processi metabolici in genere (sintesi proteica, formazione o liberazione dell’energia cellulare) quindi non solo in caso di attivazione neuronale (potenziale d’azione).

Anche si rilevasse la “magnetizzazione” di altri atomi, sempre di misurazione indiretta si tratta, quindi questo non ci dice nulla della specifica attività del neurone: depolarizzazione? Metabolismo? Plasticità neuronale?

E poi a quale fine? Quello di inventare una mappa di funzioni cerebrali per tornare a una sorta di frenologia ottocentesca? E’ questo in modo da far credere di aver dimostrato la localizzazione dei neuroni specchio, e la loro funzione specifica magari una sorta di attivazione dell’empatia in area F5?

Ma com’è possibile tutto questo se ad oggi il modello teorico più sostenibile, di interpretazione del funzionamento neurale, è quello dei “circuiti/reti neurali”?

Perché tornare ancora alla vecchia idea delle aree specifiche per determinate specifiche funzioni, solo per affermare la teoria dei neuroni specchio in modo frenologico?

Molto più semplicemente, il fenomeno osservato chiamato “neuroni specchioriguarda una già nota “polifunzionalità” neuronale, che di per sé spiega come non si possa intendere il funzionamento del cervello in termini di “specifiche aree= specifiche funzioni”, ma solo in termini di “circuiti neuronali” attivanti o disattivanti il propagarsi dell’impulso neuronale, senza alcuna specificità anatomica o biochimica, per quanto riguarda la correlazione ideativo-funzionale , in altre parole né il “il pensiero” né l’attività emotiva, né l’attività affettiva (empatia), hanno una qualche attivazione di una qualche specifica area.

Diverso è il funzionamento neuro-vegetativo, ormonale, immunologico, che non va confuso con il funzionamento ideico-affettivo-emotivo, pur avendo indubbie influenze reciproche.

Inoltre non va sottovalutato che la rilevazione dei segnali fMRI, non è accurata quanto dovrebbe per misurare dei tempi di variazione in millesimi di nanosecondi, che sono i tempi di trasmissione dell’impulso nervoso.

Sono stati dimostrati anche non validi (falsificabilità) e non attendibili, la maggior parte dei modelli teorici su cui si basa la risonanza magnetica funzionale, a causa della sua enorme imprecisione.

Quindi se già il metodo utilizzato sui macachi da: Rizzolati, Gallese, Fogassi e il gruppo di ricercatori pro “neuroni specchio” di Parma, ha dubbia scientificità a causa della sua eccessiva invasività e imprecisione, come è possibile dimostrare la validità degli assunti circa la teoria dei neuroni specchio, attraverso la fRMI sugli uomini, tecnica d’indagine non adeguata per rilevare l’attività neuronale di specifiche funzioni.

L’errore epistemico di fondo è sempre lo stesso: costruire o validare teorie in base allo strumento utilizzato, la fRMI mi rileva solo aree a maggiore concentrazione di un atomo (spin protonici), ma non rileva l’attivazione prodotta dai collegamenti dei neuroni fra loro (potenziali d’azione).

Metaforicamente è come se avessi uno strumento che mi fa una foto satellitare di laghi e mari sulla crosta terrestre, e questo mi portasse a una teoria di “autoproduzione locale di acqua” per spiegarne la formazione, ignorando, i corsi d’acqua che li collegano, gli eventi climatici (pioggia), la forza di gravità…, solo perché la foto satellitare non li può rilevare.

L’fRMI resta di indubbia validità per rilevare l’estensione o meno di alcuni gravi processi neuropatologici, per esempio l’estensione di una emorragia, l’estensione di una necrosi dovuta all’occlusione di un vaso, il riassorbimento o meno di liquidi dovuti a processi infiammatori e controllarne il processo di guarigione.

Concludendo la pretesa di poter validare la teoria dei neuroni specchio attraverso studi condotti sugli uomini con risonanza magnetica è senza dubbio senza fondamento.

P.s. L’obiettivo di questo blog è di tipo divulgativo pertanto i termini scientifici non sempre sono appropriati in quanto adattati alla comprensibilità di tutti (spero).

8 luglio 2016 fMRI, 15 anni di ricerche sul cervello da rifare
Un errore nei software usati per gli studi di risonanza magnetica funzionale potrebbe invalidare qualcosa come 40.000 articoli scientifici che si basano su questa tecnica di imaging.

http://www.focus.it/comportamento/psicologia/15-anni-di-ricerche-sul-cervello-da-rifare

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Corteccia cerebrale – cito architettura – e la bufala dei neuroni specchio.

Come indicato nel precedente articolo la misura di un singolo neurone è talmente minimale da poter fare che è lecito ritenere dubbia una qualche possibilità di misurazione, inoltre il neurone è collegato con dendriti e assoni ad altri neuroni posti vicini o distanti, è infatti possibile trovare neuroni con assoni lunghi più di un metro, quindi non è possibile distinguere un’attività prossimale da un’attività distale.

Un ulteriore incongruenza epistemica, circa la misurabilità o meno di presunti neuroni specchio, riguarda la cito-architettura della corteccia cerebrale, a livello istologico si vedono delle stratificazioni i cui neuroni differiscono nella forma in modo evidente, e molto spesso in biologia, la forma cellulare è indice di differenziazione funzionale della cellula.

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Se pensiamo che l’ipotetica misurazione del “singolo” neurone, avviene su macachi mentre compiono delle azioni, la prima cosa che viene spontaneo pensare è: a quale profondità andrebbe l’elettrodo? Com’ è possibile controllare la profondità dell’elettrodo? Più o meno quale tipo di stratificazione si andrebbe a misurare? Il punto di contatto fra elettrodo e tessuto cerebrale di quanto si muove, rispetto la collocazione iniziale, in un macaco che sta compiendo un azione? E di quanto si muove rispetto l’attività di perfusione sanguinea, omeostatica, metabolica o quant’altro?

Chiaro non è credibile che si possa misurare l’attività di singoli neuroni e tanto meno che siano specifici, probabilmente l’elettrodo misura l’attività di un insieme di fenomeni fra cui il potenziale di azione di un gruppo di neuroni, attività che può partire da un neurone ma anche dal fatto che il neurone viene attivato dalla sinapsi di un altri neuroni, che possono trovarsi vicino o molto distanti, dall’elettrodo conficcato nel cervello del macaco.

Inoltre non possiamo immaginare il punto di contatto fra tessuto cerebrale ed elettrodo come se fosse immobile e fisso solo perché al macaco è stata fissata la testa in modo che non possa muoverla, la perfusione sanguinea, l’attività delle cellule gliali, il mantenimento dell’omeostasi della parte liquida (più del 85% del cervello è acqua) e altri meccanismi biochimici molto complessi, danno certamente luogo a dislocazioni del punto di contatto elettrodo-tessuto cerebrale, anche per il solo fatto che l’elettrodo ha una consistenza più rigida rispetto la consistenza molliccia del cervello.

Allora cosa sarebbe questa rilevazione di attività elettrica sia che la scimmia mangi una nocciolina sia che la veda mangiare da un’altra scimmia?

Al momento possiamo trovare una spiegazione dalla fMRI, in quanto sembra possibile rilevare, in modo non invasivo, l’aumento o la diminuzione “dell’ attività metabolica” nell’encefalo, attraverso la risonanza magnetica funzionale, questo ha permesso di costatare che la maggior parte dei neuroni è indubbiamente polifunzionale, ovvero gli stessi neuroni si attivano per formare circuiti diversi nel momento in cui il cervello svolge funzioni e coscienza di ideazione diverse.

Questo significa che il contenuto ideativo viene reso cosciente, o meno, nel momento in cui c’è una attivazione neuronale, non significa necessariamente che ideazione e attivazione di gruppi neuronali corrispondano, ovvero che l’intangibilità della mente sia sostenuta esclusivamente da processi neuro fisiologici, chi afferma questo è ancora nel campo delle convinzioni personali e non nel capo del “scientificamente accertato”, ciò è stato reso evidente dalla misurazione dell’attività cerebrale in pazienti in stato di coma, registrazione che segnalavano la completa assenza di attività cerebrale ideativa durante il coma, confrontate con i ricordi del paziente uscito dal coma, hanno dimostrato che l’attività ideativa non cessa, semplicemente non è attività di cui il paziente è consapevole in uno stato di veglia e in grado di trasmettere tramite comunicazione verbale, il neurochirurgo Eben Alexander come paziente sperimentò egli stesso questa cosa, in quanto ebbe una encefalite virale che azzerò la sua attività cerebrale, ma poi uscito dal coma ricordò una massiccia attività ideativa avvenuta durante lo stato comatoso, in cui le registrazioni elettro-encefaliche corticali risultavano assenti.

Concludendo, l’esposizione dell’ipotesi dei neuroni specchio, assomiglia più a una sorta di riduzionismo ideologico, piuttosto che a una scoperta scientifica, a mio parere si tratta solo di riduzionismo ideologico cui hanno ricondotto con artificiosi intellettualismi tutta la questione inerente le emozioni, l’empatia e quant’altro. Per quanto riguarda la realtà che ho conosciuto mi ha fatto piacere costatare che in questa costruzione teorica a mio parere totalmente errata, non sono presenti attivamente degli psicologi, nel senso che la parte giustificatoria teorica inerente la psicologia è fatta da una docente pedagogista e non da una docente psicologa, la quale sostiene con indubbia auto-referenza, che l’interdisciplinarietà in psicologia è una ricchezza.

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Il cognitivismo e il camaleontismo dei comportamentisti

KwaZulu_Dwarf_Chameleon_catch_30_10_2010Attualmente nei corsi di laurea troviamo sempre di più il termine “scienze cognitive” , se andiamo all’origine del termine “psicologia cognitiva” lo troviamo verso la metà del ‘900, utilizzato da un gruppo di psicologi americani per indicare lo studio dei processi cognitivi: percezione, memoria, ragionamento, linguaggio.

L’intento espresso ed esplicito degli psicologi cognitivi, è quello di affermare e dimostrare che possono essere studiati in modo scientifico e non invasivo, i processi psicologici pertanto non visibili, questo in antitesi con gli psicologi comportamentisti (Pavlov, Skinner..) che facendo largo uso di sperimentazioni animali, dicevano di essere i soli ad avere un metodo scientifico dimostrabile in quanto basato sull’osservazione tangibile.

A monte del comportamentismo c’era l’antagonismo verso la psicoanalisi, ovvero verso la pretesa degli psicoanalisti, di affermare la scientificità della loro teoria anche se l’inconscio non è dimostrabile.

Gli psicologi cognitivisti si pongono in modo critico verso la psicoanalisi, in quanto priva di costrutti scientificamente dimostrabili, e in modo opposto ai comportamentisti in quanto il modo di dedurre il funzionamento psichico studiando il comportamento degli animali in determinate condizioni sperimentali, quindi non naturali, ne altera il processo psichico e pertanto non lo rende più studiabile scientificamente.

I cognitivisti non riconoscono che lo studio sugli animali possa in qualche modo fornire informazioni utili per comprendere la psiche umana, sia perché gli animali sono psichicamente differenti sia per l’impossibilità di eliminare tutte le variabili intervenienti, che influiscono sui loro processi psichici, non ultima la presenza dell’uomo stesso che osserva il loro comportamento, oltre alla difficoltà di poter effettuare queste osservazioni nei loro habitat abituali.

In 40 anni il cognitivismo, produsse delle evidenze scientifiche indubitabili mettendo in crisi i costrutti sperimentali comportamentistici e psicoanalitici, producendo, anche se privo di consistenti finanziamenti per le sue ricerche, delle ottime evidenze che spiegano il funzionamento della psiche umana, e questo sulla base della passione per la verità di questi psicologi.

Alla fine del’900 la reputazione scientifica dei cognitivisti aumentò tantissimo, si divulgarono molto in fretta i loro costrutti e ovunque si utilizzava questo termine “cognitivo” “cognitivismo” per parlare di psicologia, ma dalla fine degli anni ’90 ad oggi abbiamo assistito ad un progressivo oscuramento dei modelli scientifici cognitivisti originali, e a una divulgazione imponente di modelli psicologici misti, al loro interno molto contradditori, etichettati come “cognitivismo” o “scienze cognitive”.

Ora se questo rimanesse nella cultura sociale e popolare, dove non è richiesto di mantenere una reputazione di “scientificità” o qualità della conoscenza, non avrei nulla da dire, ma molto spesso così non è.

Non sono andata ad indagare in tutti i corsi di laurea in psicologia presenti a livello internazionale, e nemmeno in tutti i corsi di laurea in psicologia italiani, ma ho avuto modo di frequentare un corso di laurea magistrale in Psicologia, in un ateneo dell’Emilia Romagna, come studente, ateneo che denominava il proprio corso di laurea “… scienze cognitive” e sono rimasta attonita.

Il primo aspetto che mi ha lasciato perplessa è stato che in nome di una presunta interdisciplinarietà, l’80% dei docenti non avesse una Laurea in Psicologia.

All’interno degli psicologi ancora non c’è chiarezza su dove inizino e terminino i confini per uno studio obiettivo della psiche, mi chiedo come i non psicologi, tanto più se privi di esperienza professionale come psicologi, possano avere maggiore o almeno uguale chiarezza su tale oggetto di studio “psiche umana” avendo loro studiato e approfondito altri oggetti di studio: biologia, filosofia, pedagogia, medicina….

Un altro aspetto che mi ha lasciato attonita, è stato il modo di affrontare, di alcuni docenti, l’argomento “psiche umana”, per esempio: partendo da esperienze e studi medici di evidente impostazione comportamentistica, denominandoli “scienze cognitive”, esponendoli in lezioni frontali, argomentando i loro studi comportamentistici con concetti di filosofia, storia dell’arte, psicologia del senso comune, e altre discipline umanistiche trattate a mio parere in modo superficiale e approssimativo, per fare un esempio il concetto di intersoggettività dal punto di vista filosofico non ha nulla a che vedere con il concetto di soggettività dal punto di vista del cognitivismo, e questi venivano concettualmente scambiati come se fossero la stessa cosa, oppure scambiare le “risposte movimento- nelle macchie nel test di Rorschach” come qualcosa che avesse attinenza con i “neuroni specchio”, che sono solo neuroni polifunzionali, si attivano in presenza di diversi processi cognitivi (la maggior parte dei neuroni è polifunzionale).

Concludendo, con questo sintetico e divulgativo articolo del mio blog, voglio iniziare ad evidenziare che escludere gli psicologi dalla docenza di un corso di laurea, o da altri settori di pertinenza psicologica, modificare linguisticamente i termini rendendo “cognitivistico” ciò che “cognitivo” non è, creare congruenze forzate snaturando l’organicità di altre discipline conoscitive, forzando dei miscugli “psico-filosofici” “psico-biologici” “psico-pedagogici” “psico-medici”, non è una buona strada per aumentare la reputazione di una realtà accademica, semmai è più probabile che si crei una sorta di “decadentismo accademico”, lo stesso che storicamente abbiamo visto nel periodo pre-fascista, periodo che ha visto in Italia, dopo un iniziale entusiasmo verso la psicologia, un moltiplicarsi di cattedre universitarie, e poi un progressivo annientamento della psicologia che come è noto per sua natura è una disciplina conoscitiva molto refrattaria a regimi dittatoriali.

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