versus Indubbiamente una buona ricerca scientifica non è facile da fare; e in campo psicologico è ancora più difficile perché l’osservatore e l’oggetto osservato coincidono, in altre parole l’oggetto osservato “la mente” coincide con “la mente dell’osservatore” pertanto auto ingannarsi è molto più facile in psicologia che in qualsiasi altra disciplina.
Il ricercatore deve fare i conti con due problemi che invalidano la sua ricerca :
Per esempio l’ipotesi specchio di Giacomo Rizzolati, prevede che esista un’ unità funzionale: il neurone, che determina la specificità della realtà psichica, per lui, conosciuta la funzione cellulare del singolo neurone, si comprende il funzionamento di tutto l’organo: “cervello” e nell’ipotesi specchio sarebbe duplice: motoria effettrice e rappresentativa di una azione motoria, questa “duplicità funzionale” di un’area motoria, è stata definita con il termine “specchio”, per indicare l’ipotesi che l’attività neuronale motoria potrebbe essere localizzata in aree confinate in cui il singolo neurone avrebbe sia la funzione di produrre un determinato movimento, sia la funzione di riconoscere lo stesso movimento prodotto da un altro soggetto, è una aggiunta arbitraria quella di pensare che nel cosi detto “fenomeno specchio” il soggetto riconosca il proprio atto motorio come se si trovasse di fronte a uno specchio.
Dal punto di vista psicologico questo è un errore forte, in quanto gli psicologi sono tutti concordi che sia la funzione imitativa, sia la funzione di riconoscimento nell’altro di qualcosa di simile prevede una distinzione fra se e l’altro, in caso contrario si entra in patologie psichiche dove il sé è “come disintegrato” in altre parole il “fenomeno specchio” è presumibilmente più affine alla schizofrenia, dove la distinzione fra sé è l’altro potrebbe essere compromessa.
Il termine “specchio” non è un termine adatto per nominare un fenomeno che preveda sia la produzione di un atto motorio che il riconoscimento dello stesso atto motorio, l’atto motorio implica in sé una finalità, per esempio raggiungere un oggetto, il riconoscimento della stessa finalità motoria in un altro soggetto implica la comprensione della finalità dell’atto motorio, e non la visione di un altro soggetto uguale a se stesso.
Se un ricercatore si aspetta di vedere un “comportamento specchio” perché lo ha nominato in questo modo, e vuole confermare la sua “ipotesi specchio” corre il rischio di vedere in tutti i fenomeni psichici degli “specchi neuronali”, senza che questi esistano.
Per fare un esempio qui uno spezzone audio a caso, di una lezione universitaria, di un ricercatore dell’equipe di un noto neurofisiologo Giacomo Rizzolati.
inizialmente dice che due soggetti senza arti superiori attiverebbero gli effettori della bocca e dei piedi che andrebbero a sostituire quelli delle mani, a parte il problema della fRMI che per il 70% produrrebbe una “falsa positività” in termini di attivazione di aree corticali, mi pare un po’ azzardato paragonare l’organizzazione neuronale di una persona con caratteristiche fisiche molto differenti (assenza di arti superiori) a una persona che queste caratteristiche non le ha; dove e come si sarebbe dimostrato che il riconoscimento di un atto motorio: movimento della bocca di un soggetto con gli arti superiori, corrisponde a un riconoscimento nel soggetto senza arti superiori della sua stessa finalità dell’atto motorio?
Sempre nello spezzone audio egli critica una psicologa cognitivista, scettica sulla teoria specchio, dicendo che questa psicologa, non coglie il meccanismo di risonanza motoria di rispecchiamento, ma ovvio noi psicologi non vediamo degli specchi nell’ attività cerebrale, tanto più se cognitivisti, vediamo riconoscimenti, sequenze motorie, azioni finalizzate con un vocabolario che utilizza parole che evocano un’ attività psichica e non oggetti d’uso comune: specchi, cui si attribuisce un qualche senso metaforico non ben definito.
Il termine “risonanza” nell’uso del vocabolario psicologico, descrive più un fenomeno di tipo fisico/acustico, piuttosto che un fenomeno psichico, è la psicologia ingenua che utilizza termini approssimativi e metaforici, tipo “risonanza” per indicare un ipotesi di sincronizzazione ideativa, non la psicologia scientifica.
Ma tornando all’episodio iniziale: quello che si è visto in un laboratorio di neurofisiologia di Parma: a un macaco è stato infilato un elettrodo in un solco cervello (area F5), l’elettrodo è stato collegato a un marchingegno che quando rileva un aumento dell’attività elettrica emette un suono, hanno notato che questo marchingegno suonava, sia che il macaco mangiasse (atto motorio finalizzato) sia che osservasse qualcuno prendere del cibo, anche se il cibo è nascoso.
L’ipotesi specchio dice in modo riduzionistico, che l’unità funzionale “singolo neurone dell’area F5” svolge attività psichica di “produzione di atto motorio” e anche “vede il suo atto motorio nell’altro come se fosse uno specchio”.
E allora? Questo dimostra che i neuroni sono in risonanza? Che tutti i neuroni si specchiano in se stessi? Che l’attività psichica è solo una questione di rispecchiamento? Chiamata con altri termini quale: empatia, imitazione neonatale, ma in quante fallacies s’incorre con questo modo di argomentare? fallacia compositionis? petitio principii? cum hoc ergo propter hoc?
Chi sostiene l’ipotesi specchio,i vede ovunque l’effetto rispecchiamento! e allora? l’area motoria è l’area dell’empatia rispecchiante? dalla corteccia motoria passa tutta la psiche umana? gli affetti rispecchianti, le emozioni rispecchianti del volto, le pulsioni rispecchianti, anche le percezioni sono rispecchianti? Come se tutto producesse un effetto specchio, e poi viene meglio se detto in inglese “effetto mirror” ! E allora è lecito chiederci a cosa serve tutta l’altra parte del cervello, se tutto passerebbe dall’area motoria che garantirebbe questo “effetto mirror”! Su questi presupposti viene tenuto un corso di laurea magistrale in psicologia, dove l’80% dei docenti non ha una laurea in psicologia, ma avremo 100 laureati in psicologia all’anno, formati in questo modo, francamente tutto questo mi pare più affine a una sorta di decadentismo culturale piuttosto che altro, e immagino sia un fenomeno accademico di decadenza culturale in materie psicologiche che non si limiti all’Ateneo di Parma.
Continuando nello spezzone audio, il ricercatore critica una cognitivista inglese dicendo: – quando parla di mirror fa seguire le diapositive del cane di Pavlov che saliva .. e dice che i neuroni mirror, … si tratta di uno dei tanti meccanismi di associazione prevalentemente visuo motorio che troviamo nel cervello, … e i mirror di faccia? (esisterebbero i neuroni specchio che sostengono la mimica facciale) allora lei dice è semplicemente lo specchio è il volto dell’altro, ….. e l’imitazione neonatale?(una ipotesi del 1977, tra l’altro recentemente falsificata in questa ricerca) ….. In mezzo alle ostetriche, al casino della sala parto, al neonato fai vedere il volto dell’adulto ed è l’unico stimolo a cui risponde, ma nell’utero non ci sono altre facce come fa?…. e lei dice è un artefatto, ma se per dimostrare la mia teoria scientifica devo negare l’evidenza empirica! lei dice l’esperienza sensori motoria di un individuo si osserva mentre si esegue un azione, direttamente o in uno specchio, o quando sono viste dagli altri, o quando siamo coinvolti in azioni sincronizzate ……
A parte il tono della lezione che sembra più un arringa a favore dei neuroni specchio, mi stupisco che un neurofisiologo non tenga in considerazione riguardo il fenomeno che avrebbe osservato in sala parto, del neonato che risponderebbe solo al volto di un adulto e non ad altro, di alcune semplici osservazioni sulla maturazione del sistema neuronale dal momento della nascita in poi.
Sappiamo che il cervello di un neonato è pieno di corpi cellulari e poche connessioni, quindi anche la funzione visiva non è formata, il neonato riuscirebbe a vedere meglio ciò che si trova a 20-25 cm dal suo viso (e al ricercatore sui neuroni mirror andrebbe chiesto: ci siamo avvicinati per fare in modo che il neonato dia segni di orientamento al nostro volto?)
Alla nascita l’acuità visiva sarebbe 40 volte più bassa che nell’adulto, come anche la sensibilità al contrasto (di norma è la funzione di alcuni recettori della retina i coni) la fovea del neonato (dove c’è maggiore concentrazione di coni, quindi minor riconoscimento dei dettagli, forma degli occhi, colore…) non è differenziata, e inizia a svilupparsi intorno al 4-5 mese, il cristallino del neonato possiede un alto grado di trasparenza e permette il passaggio di tutte le radiazioni luminose senza assorbimento o riflessione , l’area dove operano i bastoncelli (sensibili al movimento) è un po’ più debole.
Pertanto non è che per caso questo riconoscimento del volto umano sia da imputare al fatto che la conformazione dell’occhio dell’adulto riflette meglio le radiazioni luminose? Stimolo visivo a cui il neonato è più sensibile? E che di quei due pallini di luce (gli occhi) che i neonato vede, il neonato ne percepisca il movimento molto di più di quello che percepiamo noi? E che le labbra essendo più facilmente umide riflettano meglio di altre parti del viso la luce? Inoltre la percezione sarà un’integrazione fra stimoli olfattivi, gustativi… potrebbe anche essere che il neonato riconosca l’odore della madre e il sapore della sua pelle visto che c’è stato per nove mesi dentro…, che si faccia una “mappa tattile” fra la consistenza del capezzolo e le sue labbra, che la associ il tipo di rifrazione degli occhi della madre in quanto legata al piacere della nutrizione, non è per nulla detto che il tutto passi da un sistema visivo ancora immaturo e dalla specificità neuronale ipotizzata dell’area F5, quando ancora le connessioni si devono formare immaginando nell’innegabile funzione istintiva della nutrizione una empatia già consolidata fin dalla nascita sostenuta da neuroni mirror che ancora si devono collegare con altri neuroni.
Concludendo nelle ipotesi specchio dell’equipe di Parma, vi sono a mio parere troppi errori logici, che derivano da un eccessivo bisogno di affermare la propria teoria, che rendono le argomentazioni poco obiettive, poco coerenti con argomentazioni già validate da altri settori disciplinari, fra cui la psicologia cognitiva, lo sviluppo neurofisiologico neonatale ed altro, con il rischio che si entri in una sorta di decadentismo culturale che riguarda la psicologia academica di tipo comportamentisto – frenologico. E come sempre ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, la psicologia agli psicologi, la medicina ai medici, la pedagogia ai pedagogisti.
Ultimamente la moda sui neuroni specchio li vede implicati ovunque, confondendo i vari piani psichici e i processi da cui sono attivati, l’ultima vorrebbe che i neuroni specchio siano coinvolti nell’empatia, ma il processo è totalmente differente anche se non è escluso che i neuroni dell’area F5, in cui sarebbero presenti i neuroni specchio, si attivino in quanto neuroni aspecifici e polifunzionali.
A mio parere il primo errore viene fatto dagli sperimentatori in quando sovrappongono l’elemento neuro-attivante oggetto/soggetto.
Riassumendo il fenomeno osservato si ha sia quando il macaco mangia (attivazione F5), sia quando il macaco vede mangiare un altro macaco, ma l’area F5 sarebbe attivata dall’oggetto: nocciolina, o dalla vista del soggetto che mangia la nocciolina? Ovviamente qui trascendiamo l’analisi del setting predisponente: laboratorio sperimentale, totalmente avulso dall’ambiente naturale in cui dovrebbero vivere i macachi.
Nel suo ultimo libro uno degli sperimentatori sostiene che i neuroni specchio sono da considerarsi i “neuroni dell’empatia”, quindi opta per una delle due interpretazioni, l’area F5 sarebbe attivata non dall’oggetto “nocciolina” in mano al macaco, ma dall’osservazione: “soggetto macaco” che mangia la nocciolina, pertanto presunta identificazione.
In altre parole se uno entra in un ristorante è più facile che si identifichi con le persone che stanno mangiando piuttosto che venga attratto dal cibo che le persone stanno mangiando.
Al momento questo non è dimostrabile, non possiamo stabilire se se l’area F5 si attiverebbe dalla nocciolina in mano al macaco o dall’osservazione dell’atto motorio “mangiare la nocciolina”.
Sulla rete web sta circolando un episodio che si è verificato spontaneamente in ambiente urbano, in India, una scimmia rhesus, ha salvato un cucciolo di cane dall’attacco di un branco di cani, per poi prendersene cura e in un certo senso adottarlo: http://blog.pianetadonna.it/amotuttiglianimali/scimmia-impietosita-un-cucciolo-randagio-lo-adotta-avergli-salvato-la-vita/
Non è una caso raro altri comportamenti altruistici di animali verso altre specie di animali si sono verificati con una certa frequenza.
Una collega mi ha fatto notare come in questo caso l’empatia non fosse intraspecifica e infatti è più probabile che l’empatia sia collegata allo sviluppo di un proprio codice etico piuttosto che attivata da una identificazione automatica nei confronti dell’altro.
Pertanto è altamente improbabile che la scimmia possa identificarsi nel cucciolo di cane, specie completamente diversa, è più probabile che sia mossa da una suo “codice etico” che la spinge a salvare il cucciolo nonostante il pericolo di essere sbranata dal branco di cani, che sta correndo.
In psicologia si presume che i due livelli di sviluppo presumibilmente implicati nella presunta “empatia” nella teoria specchio, si svolgano in tempi diversi.
Per stare in relazione con la teoria specchio l’aspetto a) è attivato dall’oggetto “cibo” , mentre l’aspetto b) dal soggetto che mangia (empatia).
Riportandoci all’esempio del comportamento della scimmietta che salva il cucciolo di cane:
Pertanto è impossibile che dal punto di vista psicologico la: “fame-tensione frustrazione-sazietà-piacere” possa essere simultanea alla dinamica psichica “empatia-tensione dispiacere- comportamento etico”, è ovvio che il primo produce un comportamento che va verso la diminuzione di tensione: sazietà-piacere, mentre il secondo produce un comportamento che aumenta la tensione: la paura di essere aggrediti difendendo il cucciolo.
Quindi possiamo affermare una teoria polifunzionale che riguarda tutti i neuroni, ovvero non è la specificità dei singoli neuroni che caratterizzano la modalità psichica, in altre parole non è la specificità nel neurone specchio che caratterizza sia piacere da sazietà che empatia, secondo una duplice specifica funzione del neurone specchio.
O anche non è l’area F5 delimitata e costituita da specifici neuroni che determinerebbe sia il piacere della visione del cibo, sia il comportamento altruistico di protezione della scimmietta indiana, ma più probabilmente questo è determinato dal percorso che lo stimolo elettrico fa nel momento in cui si verifica l’attività psichica.
In questo senso i neuroni specchio possono essere considerati come degli “incroci” di diverse attività cognitive ma non dei neuroni specifici per una o l’altra attività psichica.
Concludendo i piani
a) soddisfazione di bisogno fisico (alimentazione) piano pulsionale.
b) identificazione con un altro individuo, piano affettivo.
c) comportamento di protezione materna, piano etico su base empatica.
difficilmente possono essere attivati contemporaneamente, o piacere alimentare, o identificazione proiettiva, o comportamento volitivo su base empatico-etica.
Pertanto non è sostenibile l’idea che della specificità di un singolo neurone specchio e tanto meno che abbia nella propria specificità tutte queste funzioni contemporaneamente, al massimo si può presumere che i neuroni siano polifunzionali e pertanto che possano essere parte di circuiti diversi, ma questo esclude un specificità neuronale come l’ipotesi specchio vuole far credere.
Attorno al fenomeno dei neuroni polifunzionali, chiamato “neuroni specchio” e evidenziato nel setting sperimentale di ricerca sui macachi, da Giacomo Rizzolati, alla fine degli anni ’80, si sono aggregati diversi studiosi del comportamento: pedagogisti, biologi, medici, ma pochissimi psicologi, i quali hanno portato contributi teorici a sostegno della “teoria specchio”.
Andrebbe qui fatta una considerazione sull’adeguatezza del termine “specchio” per descrivere il fenomeno della polifunzionalità neuronale; che a propongo in termini metaforici: per esempio la pelle è un tessuto “polifunzionale”, ha funzione di protezione, di omeostasi, di sensibilità nervosa: tattile, dolorifica, termica…, eccetera.
Immaginiamo che dei ricercatori abbiano notato che la pelle con l’esposizione al sole cambia colore e da quel momento abbiano continuato ad osservare solo quel fenomeno, e abbiano denominato la loro scoperta: la scoperta del “tessuto colore”, poi immaginiamo che abbiano molto pubblicizzato la loro scoperta e che tutti abbiano iniziato a parlare del “tessuto colore”. Poi immaginiamo che a livello accademico si sia formato un gruppo di studio: gli antropologi hanno portato le loro teorie etniche, i biologi le loro teorie genetiche, i sociologi le loro teorie sociologiche sull’integrazione , e insieme abbiano creato un’equipe di fama mondiale che studia il “tessuto colore”, con pubblicazioni su pubblicazioni sull’evidenza scientifica che la pelle cambia colore a secondo se viene esposta o meno alla luce solare.
In questo caso i dermatologi verrebbero espropriati della loro autorevolezza scientifica, in campo dermatologico, esattamente come lo sono stati gli psicologi, dalla realtà parmense, dove per esempio la LM creata attorno alla “teoria specchio” ha solo il 20% di docenti con laurea in psicologia.
Per tornare alla metafora del “tessuto colore” si creerebbe un corso di laurea centrato sulla scoperta del tessuto colore, con nuovi laureati in dermatologia convinti che la pelle abbia come unica caratteristica quella di cambiare colore, le conoscenze dei vecchi dermatologi verrebbero etichettate come superate e vecchie, e le nuove semplificazioni sulla pelle come “tessuto colore” verrebbero considerate come nuova scoperta scientifica che modifica radicalmente il precedente modello dermatologico polifunzionale.
Non sarebbe questa una forma di decadentismo culturale? Come è stato il manierismo rinascimentale, il neoclassicismo veneto, il periodo rococò per fare degli esempi estetici.
Quindi che dai neuroni specchio, si sia approdati a teorie sull’empatia, sembra sia più risonante con il termine “specchio” piuttosto che con il fenomeno sul polifunzionalismo neuronale osservato: dell’elettrodo conficcato nel cervello del macaco, che suona sia che il macaco mangi sia che il macaco osservi mangiare, da ciò si è arrivati: a pensare che anche affetti e emozioni siano di origine motoria, perché per esempio l’espressione emotiva del viso (Eckman) richiede la contrazione o meno di alcuni muscoli facciali, ma tutto ciò è eccessivo, tanto più se si tentano dei collegamenti con soggetti autistici che hanno una espressività mimica minore, basta pensare agli studi fatti sui soggetti che hanno una cultura in cui le emozioni vengono più raramente espresse con il viso (cinesi) , i soggetti affermavano di avere una ricca vita emotiva, questo fa capire la paradossalità del tentativo riduzionista dei fautori della “teoria specchio”.
Concludendo: il fenomeno accademico “dei neuroni specchio” secondo cui tutto: emozioni, affetti, cognizioni, comportamenti … girerebbe attorno al “sistema motorio” è a mio parere eccessivo e senza fondamento, esclude parti importanti dell’attività psichica come: simbolismo, attività onirica, rappresentazione cognitiva basata su funzioni mentali limitate (memoria, attenzione..) , astrazione, riflessione etica, mentalizzazione…
Il rischio è che venga esaltata e accreditata e diventi di moda, una qualche forma di “psicoterapia motoria” che annulla la capacità introspettiva, simbolica, critica, e di astrazione dell’individuo, infantilizzando l’adulto, infantilizzazione che è ciò che vorrebbero i sostenitori dello spostamento di tutto il potere sociale sull’attuale sistema di gestione economica a livello internazionale (globalizzazione).
Spesso i teorici dei neuroni specchio utilizzano per validare la loro teoria, studi con risonanza magnetico funzionale fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), tale sistema viene utilizzato con il tentativo di rafforzare e avvalorare la teoria dei neuroni specchio dopo le note sperimentazioni sui macachi.
In sintesi l’fMRI consiste nel sottoporre la persona a un forte campo magnetico statico, che causa l’allineamento degli spin dei protoni (cariche elettriche degli atomi), i quali si allineano parallelamente o antiparallelamente, questo perché gli spin protonici iniziano a ruotare sul proprio asse. Fornendo energia a livello atomico alla “stessa frequenza” (risonanza) otteniamo che dopo l’impulso dato, i protoni tenderanno a tornare allo stato iniziale (questa variazione è ciò che si rileva e interpreta).
Tramite una bobina si misura la magnetizzazione del piano perpendicolare, al campo magnetico principale, relativa un solo tipo di atomo, per esempio l’ossigeno, (ma si può fare anche per altri atomi, idrogeno, sodio, fosforo) poi tramite un software si traduce il segnale ricevuto in immagini che sono il risultato di “una media del fenomeno misurata in “x” tempo”.
Nel caso la misurazione riguardasse l’ossigeno avremmo come immagine visiva sul monitor, l’aumento o la diminuzione del flusso del sangue ossigenato, anche di piccoli vasi sanguinei (capillari) per il prevalere dell’atomo di ossigeno legato all’emoglobina (più ossigeno più attività rilevata), ma è chiaro che l’ossigeno è un componente molecolare anche di altri tessuti diversi dal sangue.
L’assunto è che dove viene richiamato più ossigeno dev’esserci una maggiore attività neuronale, quindi dove c’è più flusso sanguineo c’è più attività “elettro-neuronale”(potenziale d’azione), quindi più attività cognitiva specifica, assunto discutibile.
In realtà il sangue ossigenato, viene richiamato anche per altri motivi, infiammazione, riparazione dei tessuti, crescita neuronale e in tutti i processi metabolici in genere (sintesi proteica, formazione o liberazione dell’energia cellulare) quindi non solo in caso di attivazione neuronale (potenziale d’azione).
Anche si rilevasse la “magnetizzazione” di altri atomi, sempre di misurazione indiretta si tratta, quindi questo non ci dice nulla della specifica attività del neurone: depolarizzazione? Metabolismo? Plasticità neuronale?
E poi a quale fine? Quello di inventare una mappa di funzioni cerebrali per tornare a una sorta di frenologia ottocentesca? E’ questo in modo da far credere di aver dimostrato la localizzazione dei neuroni specchio, e la loro funzione specifica magari una sorta di attivazione dell’empatia in area F5?
Ma com’è possibile tutto questo se ad oggi il modello teorico più sostenibile, di interpretazione del funzionamento neurale, è quello dei “circuiti/reti neurali”?
Perché tornare ancora alla vecchia idea delle aree specifiche per determinate specifiche funzioni, solo per affermare la teoria dei neuroni specchio in modo frenologico?
Molto più semplicemente, il fenomeno osservato chiamato “neuroni specchio” riguarda una già nota “polifunzionalità” neuronale, che di per sé spiega come non si possa intendere il funzionamento del cervello in termini di “specifiche aree= specifiche funzioni”, ma solo in termini di “circuiti neuronali” attivanti o disattivanti il propagarsi dell’impulso neuronale, senza alcuna specificità anatomica o biochimica, per quanto riguarda la correlazione ideativo-funzionale , in altre parole né il “il pensiero” né l’attività emotiva, né l’attività affettiva (empatia), hanno una qualche attivazione di una qualche specifica area.
Diverso è il funzionamento neuro-vegetativo, ormonale, immunologico, che non va confuso con il funzionamento ideico-affettivo-emotivo, pur avendo indubbie influenze reciproche.
Inoltre non va sottovalutato che la rilevazione dei segnali fMRI, non è accurata quanto dovrebbe per misurare dei tempi di variazione in millesimi di nanosecondi, che sono i tempi di trasmissione dell’impulso nervoso.
Sono stati dimostrati anche non validi (falsificabilità) e non attendibili, la maggior parte dei modelli teorici su cui si basa la risonanza magnetica funzionale, a causa della sua enorme imprecisione.
Quindi se già il metodo utilizzato sui macachi da: Rizzolati, Gallese, Fogassi e il gruppo di ricercatori pro “neuroni specchio” di Parma, ha dubbia scientificità a causa della sua eccessiva invasività e imprecisione, come è possibile dimostrare la validità degli assunti circa la teoria dei neuroni specchio, attraverso la fRMI sugli uomini, tecnica d’indagine non adeguata per rilevare l’attività neuronale di specifiche funzioni.
L’errore epistemico di fondo è sempre lo stesso: costruire o validare teorie in base allo strumento utilizzato, la fRMI mi rileva solo aree a maggiore concentrazione di un atomo (spin protonici), ma non rileva l’attivazione prodotta dai collegamenti dei neuroni fra loro (potenziali d’azione).
Metaforicamente è come se avessi uno strumento che mi fa una foto satellitare di laghi e mari sulla crosta terrestre, e questo mi portasse a una teoria di “autoproduzione locale di acqua” per spiegarne la formazione, ignorando, i corsi d’acqua che li collegano, gli eventi climatici (pioggia), la forza di gravità…, solo perché la foto satellitare non li può rilevare.
L’fRMI resta di indubbia validità per rilevare l’estensione o meno di alcuni gravi processi neuropatologici, per esempio l’estensione di una emorragia, l’estensione di una necrosi dovuta all’occlusione di un vaso, il riassorbimento o meno di liquidi dovuti a processi infiammatori e controllarne il processo di guarigione.
Concludendo la pretesa di poter validare la teoria dei neuroni specchio attraverso studi condotti sugli uomini con risonanza magnetica è senza dubbio senza fondamento.
P.s. L’obiettivo di questo blog è di tipo divulgativo pertanto i termini scientifici non sempre sono appropriati in quanto adattati alla comprensibilità di tutti (spero).
8 luglio 2016 fMRI, 15 anni di ricerche sul cervello da rifare
Un errore nei software usati per gli studi di risonanza magnetica funzionale potrebbe invalidare qualcosa come 40.000 articoli scientifici che si basano su questa tecnica di imaging.
http://www.focus.it/comportamento/psicologia/15-anni-di-ricerche-sul-cervello-da-rifare