A mio parere come spesso accade in campo medico scientifico, il fenomeno cosi detto della perdita di memoria negli anziani è stato troppo banalizzato e semplificato.
In realtà la “perdita di memoria” è quello che vede l’osservatore giovane con la sua struttura cognitiva di giovane adulto.
Un fenomeno psicologico come la presunta perdita di memoria non può essere valutato in modo medico, in modo oggettivo, in quanto la mente non è tangibile, un fenomeno psicologico può solo essere dedotto con argomentazioni interpretative complesse.
La psicologia ci dice che abbiamo una specie di magazzino in cui vengono in qualche modo depositati vari ricordi.
La psicologia dice anche che il numero di informazioni memorizzate in un bambino e in un adulto è significativamente diverso, nell’anziano questo magazzino è molto più ampio rispetto un giovane adulto.
La psicologia dice anche che l’abilità di rievocare queste informazioni dipende da numerosi aspetti, per esempio l’aspetto emotivo risulta essere inibente se le emozioni sono intense, l’aspetto cognitivo risulta essere inibente se le informazioni ricevute sono in contrasto fra loro (questo ovviamente è molto più presente nell’anziano in quanto avendo più informazioni ha maggiore probabilità che esse possano esserci memorie incoerenti fra loro), l’aspetto affettivo risulta essere inibente e talvolta distorcente se le informazioni memorizzate riguardano fatti dolorosi non ben elaborati e via dicendo l’elenco è molto lungo.
Tornando alla memoria degli anziani, i neurologi affermano che questa è decaduta in quanto con la strumentazione in loro possesso (RMN TAC) il cervello appare meno denso e dove c’è minore densità ci sono meno neuroni e dove ci sono meno neuroni ci sarebbe perdita di funzioni cerebrali.
Alcuni psicologi concordano con questo modo di interpretare la cosa altri no.
Io per esempio non concordo in quanto a mio parere la natura ci ha dotato di una base anatomo-fisiologica molto più abbondante di quella che ci serve, e questo in tutti i sistemi, il sistema respiratorio ha una capacità di scambiare ossigeno con un range molto ampio che va dal campione olimpionico (massima capacità) all’impiegato delle poste (minore richiesta in quanto l’apparato muscolare è in uno stato di semiriposo), stessa cosa per l’attività metabolica, muscolare, cardiaca (gettata cardiaca)ecc.
Per il cervello è stato dimostrato che funzioni molto complesse possono richiedere per esempio una percentuale molto bassa di attivazione neuronale (per es calcoli matematici), e che i circuiti neuronali per la maggior parte non sono specifici e la dove vi sono ampie lesioni i tessuti cerebrali non lesi possono adempiere alle funzioni che sembravano perse come per esempio il linguaggio.
Da questo (ma anche da altri fattori che non ha senso evidenziare per non appesantire la lettura di un articolo che vuole essere divulgativo) si deduce che non ci sia un rapporto fra quantità (densità del tessuto cerebrale) e funzioni cognitive possibili.
Ma allora perché dal giovane è più facile avere un informazione che ha memorizzato mentre nell’anziano è più difficile?
Per esempio un numero di telefono, che fino a qualche anno prima l’anziano ricordava con facilità.
Prendiamo come esempio un numero di 10 cifre (il n° di un cellulare), essendo maggiore di 7 cifre non può essere ricordato nella memoria a breve termine, ma va memorizzato in quella a lungo termine.
Escludiamo che questo numero abbia qualche valenza emotiva, affettiva, cognitiva che ne inibisca la rievocazione.
Se chiediamo questo numero a un giovane anche dopo un anno il giovane lo rievoca facilmente e senza sforzo (per esempio il numero di telefono della propria famiglia) mentre è più improbabile che l’anziano lo riesca a rievocare, però poi accade che nell’anziano in un altro momento, per esempio il giorno dopo se lo ricordi, quindi non possiamo dire che è una memoria che è andata persa, possiamo solo dire che per un anziano è più difficile rievocare quando vuole, un informazione memorizzata precedentemente.
Questo è il punto, non possiamo dire con certezza che c’è stata una perdita di memoria ma solo che c’è stata una perdita della capacità di riportare in memoria un informazione.
Possiamo affermare che nell’anziano ci sono molte più informazioni e quindi possono essere simili fra loro quindi più difficilmente discriminabili, nel giovane questa discriminazione è più facile in quanto ha in memoria meno informazioni.
Possiamo affermare che nell’anziano emergono spontaneamente dettagli di memoria (per esempio autobiografici) mentre nel giovane la rievocazione è più volitiva, cioè decido di ricordare una cosa lo posso fare, nell’anziano questo è deficitario, ma nell’anziano emergono frequentemente e spontaneamente dei ricordi che l’anziano non ha voluto ricordare, e questo è deficitario nel giovane.
I ricordi che emergono spontaneamente possono avere la caratteristica di attivare una ricerca di significato (stile cognitivo semantico).
I ricordi che richiedono una rievocazione volitiva possono avere la caratteristica di mettere in atto un comportamento o una azione precisa volta a uno scopo.
Quindi possiamo solo dedurre che lo stile cognitivo in un giovane, quindi anche il suo modo volitivo di rievocare informazioni, lo predispone a comportamenti attivi, fare delle cose; in un anziano il suo avere rievocazioni spontanee non volute, ed avere un sistema meno efficace nella rievocazione volitiva, lo inibisce nei comportamenti immediati di azione, ma lo predispone a un comportamento di riflessione sul senso delle cose.
A mio parere da tutto questo non si può dedurre un deterioramento cognitivo nell’anziano ma solo un cambiamento cognitivo, come è nella natura delle cose, come accade anche nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, lo stile cognitivo cambia notevolmente e allora perché non dovrebbe cambiare dall’età adulta all’età per cosi dire avanzata?.
Se consideriamo un ottica strettamente monetaria ed economica: produrre grandi quantità di cose che risultino attraenti da potenziali acquirenti; lo stile cognitivo del giovane adulto (azioni efficaci orientate a uno scopo “produttività”) potrebbe trovare una sua più ampia realizzazione e desiderabilità sociale.
Se consideriamo un ottica sociale più di tipo etico, lo stile cognitivo del giovane se affiancato allo stile cognitivo di tipo semantico dell’anziano (qual è il senso di fare una cosa e quale cosa scegliere) trova una sua maggiore realizzazione.
Con tutta probabilità la capacità di discernimento e la capacità volitivo/attuativa non possono coesistere in un solo stile cognitivo, del resto la natura obbliga ad alleanze con esseri viventi molto diversi da noi (ambiente animali) per quale motivo non dovrebbe obbligare ad alleanze fra stili cognitivi in età molto diverse fra loro, mentre l’economia se si vuole scegliere questa strada, obbliga a omologare in flussi di valore finanziario, controllabili, tutto l’esistente, pertanto lo stile semantico diventa qualcosa di ostativo, chiedersi il perché delle cose rende più difficile l’omologazione.
In conclusione la scienza se tale vuole essere dovrebbe prendere le distanze dalle caratteristiche sociali del suo tempo: modello economico versus modello etico, e non prestarsi per esempio con presunte patologie deteriorative che e a volte essa stessa determina magari senza rendersene conto o al fine di un più agevole adattamento all’orientamento storico sociale.
versus Indubbiamente una buona ricerca scientifica non è facile da fare; e in campo psicologico è ancora più difficile perché l’osservatore e l’oggetto osservato coincidono, in altre parole l’oggetto osservato “la mente” coincide con “la mente dell’osservatore” pertanto auto ingannarsi è molto più facile in psicologia che in qualsiasi altra disciplina.
Il ricercatore deve fare i conti con due problemi che invalidano la sua ricerca :
Per esempio l’ipotesi specchio di Giacomo Rizzolati, prevede che esista un’ unità funzionale: il neurone, che determina la specificità della realtà psichica, per lui, conosciuta la funzione cellulare del singolo neurone, si comprende il funzionamento di tutto l’organo: “cervello” e nell’ipotesi specchio sarebbe duplice: motoria effettrice e rappresentativa di una azione motoria, questa “duplicità funzionale” di un’area motoria, è stata definita con il termine “specchio”, per indicare l’ipotesi che l’attività neuronale motoria potrebbe essere localizzata in aree confinate in cui il singolo neurone avrebbe sia la funzione di produrre un determinato movimento, sia la funzione di riconoscere lo stesso movimento prodotto da un altro soggetto, è una aggiunta arbitraria quella di pensare che nel cosi detto “fenomeno specchio” il soggetto riconosca il proprio atto motorio come se si trovasse di fronte a uno specchio.
Dal punto di vista psicologico questo è un errore forte, in quanto gli psicologi sono tutti concordi che sia la funzione imitativa, sia la funzione di riconoscimento nell’altro di qualcosa di simile prevede una distinzione fra se e l’altro, in caso contrario si entra in patologie psichiche dove il sé è “come disintegrato” in altre parole il “fenomeno specchio” è presumibilmente più affine alla schizofrenia, dove la distinzione fra sé è l’altro potrebbe essere compromessa.
Il termine “specchio” non è un termine adatto per nominare un fenomeno che preveda sia la produzione di un atto motorio che il riconoscimento dello stesso atto motorio, l’atto motorio implica in sé una finalità, per esempio raggiungere un oggetto, il riconoscimento della stessa finalità motoria in un altro soggetto implica la comprensione della finalità dell’atto motorio, e non la visione di un altro soggetto uguale a se stesso.
Se un ricercatore si aspetta di vedere un “comportamento specchio” perché lo ha nominato in questo modo, e vuole confermare la sua “ipotesi specchio” corre il rischio di vedere in tutti i fenomeni psichici degli “specchi neuronali”, senza che questi esistano.
Per fare un esempio qui uno spezzone audio a caso, di una lezione universitaria, di un ricercatore dell’equipe di un noto neurofisiologo Giacomo Rizzolati.
inizialmente dice che due soggetti senza arti superiori attiverebbero gli effettori della bocca e dei piedi che andrebbero a sostituire quelli delle mani, a parte il problema della fRMI che per il 70% produrrebbe una “falsa positività” in termini di attivazione di aree corticali, mi pare un po’ azzardato paragonare l’organizzazione neuronale di una persona con caratteristiche fisiche molto differenti (assenza di arti superiori) a una persona che queste caratteristiche non le ha; dove e come si sarebbe dimostrato che il riconoscimento di un atto motorio: movimento della bocca di un soggetto con gli arti superiori, corrisponde a un riconoscimento nel soggetto senza arti superiori della sua stessa finalità dell’atto motorio?
Sempre nello spezzone audio egli critica una psicologa cognitivista, scettica sulla teoria specchio, dicendo che questa psicologa, non coglie il meccanismo di risonanza motoria di rispecchiamento, ma ovvio noi psicologi non vediamo degli specchi nell’ attività cerebrale, tanto più se cognitivisti, vediamo riconoscimenti, sequenze motorie, azioni finalizzate con un vocabolario che utilizza parole che evocano un’ attività psichica e non oggetti d’uso comune: specchi, cui si attribuisce un qualche senso metaforico non ben definito.
Il termine “risonanza” nell’uso del vocabolario psicologico, descrive più un fenomeno di tipo fisico/acustico, piuttosto che un fenomeno psichico, è la psicologia ingenua che utilizza termini approssimativi e metaforici, tipo “risonanza” per indicare un ipotesi di sincronizzazione ideativa, non la psicologia scientifica.
Ma tornando all’episodio iniziale: quello che si è visto in un laboratorio di neurofisiologia di Parma: a un macaco è stato infilato un elettrodo in un solco cervello (area F5), l’elettrodo è stato collegato a un marchingegno che quando rileva un aumento dell’attività elettrica emette un suono, hanno notato che questo marchingegno suonava, sia che il macaco mangiasse (atto motorio finalizzato) sia che osservasse qualcuno prendere del cibo, anche se il cibo è nascoso.
L’ipotesi specchio dice in modo riduzionistico, che l’unità funzionale “singolo neurone dell’area F5” svolge attività psichica di “produzione di atto motorio” e anche “vede il suo atto motorio nell’altro come se fosse uno specchio”.
E allora? Questo dimostra che i neuroni sono in risonanza? Che tutti i neuroni si specchiano in se stessi? Che l’attività psichica è solo una questione di rispecchiamento? Chiamata con altri termini quale: empatia, imitazione neonatale, ma in quante fallacies s’incorre con questo modo di argomentare? fallacia compositionis? petitio principii? cum hoc ergo propter hoc?
Chi sostiene l’ipotesi specchio,i vede ovunque l’effetto rispecchiamento! e allora? l’area motoria è l’area dell’empatia rispecchiante? dalla corteccia motoria passa tutta la psiche umana? gli affetti rispecchianti, le emozioni rispecchianti del volto, le pulsioni rispecchianti, anche le percezioni sono rispecchianti? Come se tutto producesse un effetto specchio, e poi viene meglio se detto in inglese “effetto mirror” ! E allora è lecito chiederci a cosa serve tutta l’altra parte del cervello, se tutto passerebbe dall’area motoria che garantirebbe questo “effetto mirror”! Su questi presupposti viene tenuto un corso di laurea magistrale in psicologia, dove l’80% dei docenti non ha una laurea in psicologia, ma avremo 100 laureati in psicologia all’anno, formati in questo modo, francamente tutto questo mi pare più affine a una sorta di decadentismo culturale piuttosto che altro, e immagino sia un fenomeno accademico di decadenza culturale in materie psicologiche che non si limiti all’Ateneo di Parma.
Continuando nello spezzone audio, il ricercatore critica una cognitivista inglese dicendo: – quando parla di mirror fa seguire le diapositive del cane di Pavlov che saliva .. e dice che i neuroni mirror, … si tratta di uno dei tanti meccanismi di associazione prevalentemente visuo motorio che troviamo nel cervello, … e i mirror di faccia? (esisterebbero i neuroni specchio che sostengono la mimica facciale) allora lei dice è semplicemente lo specchio è il volto dell’altro, ….. e l’imitazione neonatale?(una ipotesi del 1977, tra l’altro recentemente falsificata in questa ricerca) ….. In mezzo alle ostetriche, al casino della sala parto, al neonato fai vedere il volto dell’adulto ed è l’unico stimolo a cui risponde, ma nell’utero non ci sono altre facce come fa?…. e lei dice è un artefatto, ma se per dimostrare la mia teoria scientifica devo negare l’evidenza empirica! lei dice l’esperienza sensori motoria di un individuo si osserva mentre si esegue un azione, direttamente o in uno specchio, o quando sono viste dagli altri, o quando siamo coinvolti in azioni sincronizzate ……
A parte il tono della lezione che sembra più un arringa a favore dei neuroni specchio, mi stupisco che un neurofisiologo non tenga in considerazione riguardo il fenomeno che avrebbe osservato in sala parto, del neonato che risponderebbe solo al volto di un adulto e non ad altro, di alcune semplici osservazioni sulla maturazione del sistema neuronale dal momento della nascita in poi.
Sappiamo che il cervello di un neonato è pieno di corpi cellulari e poche connessioni, quindi anche la funzione visiva non è formata, il neonato riuscirebbe a vedere meglio ciò che si trova a 20-25 cm dal suo viso (e al ricercatore sui neuroni mirror andrebbe chiesto: ci siamo avvicinati per fare in modo che il neonato dia segni di orientamento al nostro volto?)
Alla nascita l’acuità visiva sarebbe 40 volte più bassa che nell’adulto, come anche la sensibilità al contrasto (di norma è la funzione di alcuni recettori della retina i coni) la fovea del neonato (dove c’è maggiore concentrazione di coni, quindi minor riconoscimento dei dettagli, forma degli occhi, colore…) non è differenziata, e inizia a svilupparsi intorno al 4-5 mese, il cristallino del neonato possiede un alto grado di trasparenza e permette il passaggio di tutte le radiazioni luminose senza assorbimento o riflessione , l’area dove operano i bastoncelli (sensibili al movimento) è un po’ più debole.
Pertanto non è che per caso questo riconoscimento del volto umano sia da imputare al fatto che la conformazione dell’occhio dell’adulto riflette meglio le radiazioni luminose? Stimolo visivo a cui il neonato è più sensibile? E che di quei due pallini di luce (gli occhi) che i neonato vede, il neonato ne percepisca il movimento molto di più di quello che percepiamo noi? E che le labbra essendo più facilmente umide riflettano meglio di altre parti del viso la luce? Inoltre la percezione sarà un’integrazione fra stimoli olfattivi, gustativi… potrebbe anche essere che il neonato riconosca l’odore della madre e il sapore della sua pelle visto che c’è stato per nove mesi dentro…, che si faccia una “mappa tattile” fra la consistenza del capezzolo e le sue labbra, che la associ il tipo di rifrazione degli occhi della madre in quanto legata al piacere della nutrizione, non è per nulla detto che il tutto passi da un sistema visivo ancora immaturo e dalla specificità neuronale ipotizzata dell’area F5, quando ancora le connessioni si devono formare immaginando nell’innegabile funzione istintiva della nutrizione una empatia già consolidata fin dalla nascita sostenuta da neuroni mirror che ancora si devono collegare con altri neuroni.
Concludendo nelle ipotesi specchio dell’equipe di Parma, vi sono a mio parere troppi errori logici, che derivano da un eccessivo bisogno di affermare la propria teoria, che rendono le argomentazioni poco obiettive, poco coerenti con argomentazioni già validate da altri settori disciplinari, fra cui la psicologia cognitiva, lo sviluppo neurofisiologico neonatale ed altro, con il rischio che si entri in una sorta di decadentismo culturale che riguarda la psicologia academica di tipo comportamentisto – frenologico. E come sempre ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, la psicologia agli psicologi, la medicina ai medici, la pedagogia ai pedagogisti.
Attorno al fenomeno dei neuroni polifunzionali, chiamato “neuroni specchio” e evidenziato nel setting sperimentale di ricerca sui macachi, da Giacomo Rizzolati, alla fine degli anni ’80, si sono aggregati diversi studiosi del comportamento: pedagogisti, biologi, medici, ma pochissimi psicologi, i quali hanno portato contributi teorici a sostegno della “teoria specchio”.
Andrebbe qui fatta una considerazione sull’adeguatezza del termine “specchio” per descrivere il fenomeno della polifunzionalità neuronale; che a propongo in termini metaforici: per esempio la pelle è un tessuto “polifunzionale”, ha funzione di protezione, di omeostasi, di sensibilità nervosa: tattile, dolorifica, termica…, eccetera.
Immaginiamo che dei ricercatori abbiano notato che la pelle con l’esposizione al sole cambia colore e da quel momento abbiano continuato ad osservare solo quel fenomeno, e abbiano denominato la loro scoperta: la scoperta del “tessuto colore”, poi immaginiamo che abbiano molto pubblicizzato la loro scoperta e che tutti abbiano iniziato a parlare del “tessuto colore”. Poi immaginiamo che a livello accademico si sia formato un gruppo di studio: gli antropologi hanno portato le loro teorie etniche, i biologi le loro teorie genetiche, i sociologi le loro teorie sociologiche sull’integrazione , e insieme abbiano creato un’equipe di fama mondiale che studia il “tessuto colore”, con pubblicazioni su pubblicazioni sull’evidenza scientifica che la pelle cambia colore a secondo se viene esposta o meno alla luce solare.
In questo caso i dermatologi verrebbero espropriati della loro autorevolezza scientifica, in campo dermatologico, esattamente come lo sono stati gli psicologi, dalla realtà parmense, dove per esempio la LM creata attorno alla “teoria specchio” ha solo il 20% di docenti con laurea in psicologia.
Per tornare alla metafora del “tessuto colore” si creerebbe un corso di laurea centrato sulla scoperta del tessuto colore, con nuovi laureati in dermatologia convinti che la pelle abbia come unica caratteristica quella di cambiare colore, le conoscenze dei vecchi dermatologi verrebbero etichettate come superate e vecchie, e le nuove semplificazioni sulla pelle come “tessuto colore” verrebbero considerate come nuova scoperta scientifica che modifica radicalmente il precedente modello dermatologico polifunzionale.
Non sarebbe questa una forma di decadentismo culturale? Come è stato il manierismo rinascimentale, il neoclassicismo veneto, il periodo rococò per fare degli esempi estetici.
Quindi che dai neuroni specchio, si sia approdati a teorie sull’empatia, sembra sia più risonante con il termine “specchio” piuttosto che con il fenomeno sul polifunzionalismo neuronale osservato: dell’elettrodo conficcato nel cervello del macaco, che suona sia che il macaco mangi sia che il macaco osservi mangiare, da ciò si è arrivati: a pensare che anche affetti e emozioni siano di origine motoria, perché per esempio l’espressione emotiva del viso (Eckman) richiede la contrazione o meno di alcuni muscoli facciali, ma tutto ciò è eccessivo, tanto più se si tentano dei collegamenti con soggetti autistici che hanno una espressività mimica minore, basta pensare agli studi fatti sui soggetti che hanno una cultura in cui le emozioni vengono più raramente espresse con il viso (cinesi) , i soggetti affermavano di avere una ricca vita emotiva, questo fa capire la paradossalità del tentativo riduzionista dei fautori della “teoria specchio”.
Concludendo: il fenomeno accademico “dei neuroni specchio” secondo cui tutto: emozioni, affetti, cognizioni, comportamenti … girerebbe attorno al “sistema motorio” è a mio parere eccessivo e senza fondamento, esclude parti importanti dell’attività psichica come: simbolismo, attività onirica, rappresentazione cognitiva basata su funzioni mentali limitate (memoria, attenzione..) , astrazione, riflessione etica, mentalizzazione…
Il rischio è che venga esaltata e accreditata e diventi di moda, una qualche forma di “psicoterapia motoria” che annulla la capacità introspettiva, simbolica, critica, e di astrazione dell’individuo, infantilizzando l’adulto, infantilizzazione che è ciò che vorrebbero i sostenitori dello spostamento di tutto il potere sociale sull’attuale sistema di gestione economica a livello internazionale (globalizzazione).
Spesso i teorici dei neuroni specchio utilizzano per validare la loro teoria, studi con risonanza magnetico funzionale fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), tale sistema viene utilizzato con il tentativo di rafforzare e avvalorare la teoria dei neuroni specchio dopo le note sperimentazioni sui macachi.
In sintesi l’fMRI consiste nel sottoporre la persona a un forte campo magnetico statico, che causa l’allineamento degli spin dei protoni (cariche elettriche degli atomi), i quali si allineano parallelamente o antiparallelamente, questo perché gli spin protonici iniziano a ruotare sul proprio asse. Fornendo energia a livello atomico alla “stessa frequenza” (risonanza) otteniamo che dopo l’impulso dato, i protoni tenderanno a tornare allo stato iniziale (questa variazione è ciò che si rileva e interpreta).
Tramite una bobina si misura la magnetizzazione del piano perpendicolare, al campo magnetico principale, relativa un solo tipo di atomo, per esempio l’ossigeno, (ma si può fare anche per altri atomi, idrogeno, sodio, fosforo) poi tramite un software si traduce il segnale ricevuto in immagini che sono il risultato di “una media del fenomeno misurata in “x” tempo”.
Nel caso la misurazione riguardasse l’ossigeno avremmo come immagine visiva sul monitor, l’aumento o la diminuzione del flusso del sangue ossigenato, anche di piccoli vasi sanguinei (capillari) per il prevalere dell’atomo di ossigeno legato all’emoglobina (più ossigeno più attività rilevata), ma è chiaro che l’ossigeno è un componente molecolare anche di altri tessuti diversi dal sangue.
L’assunto è che dove viene richiamato più ossigeno dev’esserci una maggiore attività neuronale, quindi dove c’è più flusso sanguineo c’è più attività “elettro-neuronale”(potenziale d’azione), quindi più attività cognitiva specifica, assunto discutibile.
In realtà il sangue ossigenato, viene richiamato anche per altri motivi, infiammazione, riparazione dei tessuti, crescita neuronale e in tutti i processi metabolici in genere (sintesi proteica, formazione o liberazione dell’energia cellulare) quindi non solo in caso di attivazione neuronale (potenziale d’azione).
Anche si rilevasse la “magnetizzazione” di altri atomi, sempre di misurazione indiretta si tratta, quindi questo non ci dice nulla della specifica attività del neurone: depolarizzazione? Metabolismo? Plasticità neuronale?
E poi a quale fine? Quello di inventare una mappa di funzioni cerebrali per tornare a una sorta di frenologia ottocentesca? E’ questo in modo da far credere di aver dimostrato la localizzazione dei neuroni specchio, e la loro funzione specifica magari una sorta di attivazione dell’empatia in area F5?
Ma com’è possibile tutto questo se ad oggi il modello teorico più sostenibile, di interpretazione del funzionamento neurale, è quello dei “circuiti/reti neurali”?
Perché tornare ancora alla vecchia idea delle aree specifiche per determinate specifiche funzioni, solo per affermare la teoria dei neuroni specchio in modo frenologico?
Molto più semplicemente, il fenomeno osservato chiamato “neuroni specchio” riguarda una già nota “polifunzionalità” neuronale, che di per sé spiega come non si possa intendere il funzionamento del cervello in termini di “specifiche aree= specifiche funzioni”, ma solo in termini di “circuiti neuronali” attivanti o disattivanti il propagarsi dell’impulso neuronale, senza alcuna specificità anatomica o biochimica, per quanto riguarda la correlazione ideativo-funzionale , in altre parole né il “il pensiero” né l’attività emotiva, né l’attività affettiva (empatia), hanno una qualche attivazione di una qualche specifica area.
Diverso è il funzionamento neuro-vegetativo, ormonale, immunologico, che non va confuso con il funzionamento ideico-affettivo-emotivo, pur avendo indubbie influenze reciproche.
Inoltre non va sottovalutato che la rilevazione dei segnali fMRI, non è accurata quanto dovrebbe per misurare dei tempi di variazione in millesimi di nanosecondi, che sono i tempi di trasmissione dell’impulso nervoso.
Sono stati dimostrati anche non validi (falsificabilità) e non attendibili, la maggior parte dei modelli teorici su cui si basa la risonanza magnetica funzionale, a causa della sua enorme imprecisione.
Quindi se già il metodo utilizzato sui macachi da: Rizzolati, Gallese, Fogassi e il gruppo di ricercatori pro “neuroni specchio” di Parma, ha dubbia scientificità a causa della sua eccessiva invasività e imprecisione, come è possibile dimostrare la validità degli assunti circa la teoria dei neuroni specchio, attraverso la fRMI sugli uomini, tecnica d’indagine non adeguata per rilevare l’attività neuronale di specifiche funzioni.
L’errore epistemico di fondo è sempre lo stesso: costruire o validare teorie in base allo strumento utilizzato, la fRMI mi rileva solo aree a maggiore concentrazione di un atomo (spin protonici), ma non rileva l’attivazione prodotta dai collegamenti dei neuroni fra loro (potenziali d’azione).
Metaforicamente è come se avessi uno strumento che mi fa una foto satellitare di laghi e mari sulla crosta terrestre, e questo mi portasse a una teoria di “autoproduzione locale di acqua” per spiegarne la formazione, ignorando, i corsi d’acqua che li collegano, gli eventi climatici (pioggia), la forza di gravità…, solo perché la foto satellitare non li può rilevare.
L’fRMI resta di indubbia validità per rilevare l’estensione o meno di alcuni gravi processi neuropatologici, per esempio l’estensione di una emorragia, l’estensione di una necrosi dovuta all’occlusione di un vaso, il riassorbimento o meno di liquidi dovuti a processi infiammatori e controllarne il processo di guarigione.
Concludendo la pretesa di poter validare la teoria dei neuroni specchio attraverso studi condotti sugli uomini con risonanza magnetica è senza dubbio senza fondamento.
P.s. L’obiettivo di questo blog è di tipo divulgativo pertanto i termini scientifici non sempre sono appropriati in quanto adattati alla comprensibilità di tutti (spero).
8 luglio 2016 fMRI, 15 anni di ricerche sul cervello da rifare
Un errore nei software usati per gli studi di risonanza magnetica funzionale potrebbe invalidare qualcosa come 40.000 articoli scientifici che si basano su questa tecnica di imaging.
http://www.focus.it/comportamento/psicologia/15-anni-di-ricerche-sul-cervello-da-rifare
Come indicato nel precedente articolo la misura di un singolo neurone è talmente minimale da poter fare che è lecito ritenere dubbia una qualche possibilità di misurazione, inoltre il neurone è collegato con dendriti e assoni ad altri neuroni posti vicini o distanti, è infatti possibile trovare neuroni con assoni lunghi più di un metro, quindi non è possibile distinguere un’attività prossimale da un’attività distale.
Un ulteriore incongruenza epistemica, circa la misurabilità o meno di presunti neuroni specchio, riguarda la cito-architettura della corteccia cerebrale, a livello istologico si vedono delle stratificazioni i cui neuroni differiscono nella forma in modo evidente, e molto spesso in biologia, la forma cellulare è indice di differenziazione funzionale della cellula.
Se pensiamo che l’ipotetica misurazione del “singolo” neurone, avviene su macachi mentre compiono delle azioni, la prima cosa che viene spontaneo pensare è: a quale profondità andrebbe l’elettrodo? Com’ è possibile controllare la profondità dell’elettrodo? Più o meno quale tipo di stratificazione si andrebbe a misurare? Il punto di contatto fra elettrodo e tessuto cerebrale di quanto si muove, rispetto la collocazione iniziale, in un macaco che sta compiendo un azione? E di quanto si muove rispetto l’attività di perfusione sanguinea, omeostatica, metabolica o quant’altro?
Chiaro non è credibile che si possa misurare l’attività di singoli neuroni e tanto meno che siano specifici, probabilmente l’elettrodo misura l’attività di un insieme di fenomeni fra cui il potenziale di azione di un gruppo di neuroni, attività che può partire da un neurone ma anche dal fatto che il neurone viene attivato dalla sinapsi di un altri neuroni, che possono trovarsi vicino o molto distanti, dall’elettrodo conficcato nel cervello del macaco.
Inoltre non possiamo immaginare il punto di contatto fra tessuto cerebrale ed elettrodo come se fosse immobile e fisso solo perché al macaco è stata fissata la testa in modo che non possa muoverla, la perfusione sanguinea, l’attività delle cellule gliali, il mantenimento dell’omeostasi della parte liquida (più del 85% del cervello è acqua) e altri meccanismi biochimici molto complessi, danno certamente luogo a dislocazioni del punto di contatto elettrodo-tessuto cerebrale, anche per il solo fatto che l’elettrodo ha una consistenza più rigida rispetto la consistenza molliccia del cervello.
Allora cosa sarebbe questa rilevazione di attività elettrica sia che la scimmia mangi una nocciolina sia che la veda mangiare da un’altra scimmia?
Al momento possiamo trovare una spiegazione dalla fMRI, in quanto sembra possibile rilevare, in modo non invasivo, l’aumento o la diminuzione “dell’ attività metabolica” nell’encefalo, attraverso la risonanza magnetica funzionale, questo ha permesso di costatare che la maggior parte dei neuroni è indubbiamente polifunzionale, ovvero gli stessi neuroni si attivano per formare circuiti diversi nel momento in cui il cervello svolge funzioni e coscienza di ideazione diverse.
Questo significa che il contenuto ideativo viene reso cosciente, o meno, nel momento in cui c’è una attivazione neuronale, non significa necessariamente che ideazione e attivazione di gruppi neuronali corrispondano, ovvero che l’intangibilità della mente sia sostenuta esclusivamente da processi neuro fisiologici, chi afferma questo è ancora nel campo delle convinzioni personali e non nel capo del “scientificamente accertato”, ciò è stato reso evidente dalla misurazione dell’attività cerebrale in pazienti in stato di coma, registrazione che segnalavano la completa assenza di attività cerebrale ideativa durante il coma, confrontate con i ricordi del paziente uscito dal coma, hanno dimostrato che l’attività ideativa non cessa, semplicemente non è attività di cui il paziente è consapevole in uno stato di veglia e in grado di trasmettere tramite comunicazione verbale, il neurochirurgo Eben Alexander come paziente sperimentò egli stesso questa cosa, in quanto ebbe una encefalite virale che azzerò la sua attività cerebrale, ma poi uscito dal coma ricordò una massiccia attività ideativa avvenuta durante lo stato comatoso, in cui le registrazioni elettro-encefaliche corticali risultavano assenti.
Concludendo, l’esposizione dell’ipotesi dei neuroni specchio, assomiglia più a una sorta di riduzionismo ideologico, piuttosto che a una scoperta scientifica, a mio parere si tratta solo di riduzionismo ideologico cui hanno ricondotto con artificiosi intellettualismi tutta la questione inerente le emozioni, l’empatia e quant’altro. Per quanto riguarda la realtà che ho conosciuto mi ha fatto piacere costatare che in questa costruzione teorica a mio parere totalmente errata, non sono presenti attivamente degli psicologi, nel senso che la parte giustificatoria teorica inerente la psicologia è fatta da una docente pedagogista e non da una docente psicologa, la quale sostiene con indubbia auto-referenza, che l’interdisciplinarietà in psicologia è una ricchezza.
Oggetto di studio: la psicologia non può formulare misurazioni oggettive in quanto è per sua natura intangibile, questo non significa che non sia reale, è falso pensare che la realtà sia solo ciò che è tangibile e può essere percepito dai sensi per esempio il pensiero non è percepibile dai sensi ma non possiamo dire che non esista, se non esistesse il pensiero non ci sarebbero i progetti, le città, e via dicendo.
“Componenti” principali: possiamo descrivere i costituenti della mente come “insiemi” distinti che in alcuni punti interagiscono, ma non per questo devono essere ritenuti della stessa “natura”, i componenti principali sono: le emozioni, gli affetti, l’ideazione, gli istinti, le pulsioni, i sensi e il movimento. Pulsioni sensi e movimento hanno la necessità di un corpo per potersi estrinsecare.
Di solito la psicologia ingenua confonde:
-emozioni e affetti,
-pulsioni e emozioni,
-ideazione con gli altri componenti, emozioni, istinti, affetti ecc..,
-il fatto che alcuni componenti psichici che necessitano dell’organismo siano in sé “l’oggettività” della psicologia,
– che la risposta verbale o scritta sia il contenuto mentale e non il risultato di un processo,
e molte altre semplificazioni su cui non è il caso di dilungarsi.
In conclusione il costrutto di base è da intendersi come un “movimento” incapsulato in un altro “movimento” a sua volta incapsulato in altri “movimenti” secondo un ordine infinito e intangibile, e in relazione fra loro senza uno spazio e un tempo in base alle caratteristiche distintive dei sette componenti della psiche.
Le cosi dette disfunzioni mentali, così per come sono grossolanamente concepite, per esempio ansia, depressione…, riguardano un componente psichico, es ansia: emozioni, depressione: affetti, ma la mente non è per sua natura scomponibile “in modo anatomico”, per questo motivo spesso la modalità “categoriale” che imita il modello medico, non è adeguata, è necessario avere un modello psichico non medico per poter affrontare i problemi psichici.
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La memoria esplicita, riguarda il ricordo cosciente di informazioni che riguardano persone, luoghi, e oggetti, essa collega la nostra vita mentale consentendoci di ricordare cosa, dove e con chi abbiamo svolto determinate azioni, durante i giorni, le settimane, i mesi gli anni precedenti.
Le strutture deputate alla memoria esplicita sembrano essere principalmente la corteccia prefrontale e l’ippocampo. L’ippocampo conserva le informazioni della memoria esplicita, a lungo termine, ma la conservazione finale di tutte le memorie, si ritiene sia nella corteccia cerebrale.
La memoria esplicita garantisce una memoria operativa che deriva da una persistente attività neurale (potenziale a lungo termine) della corteccia, in cui è implicata l’attività modulatoria del neurotrasmettitore: dopamina.
In alcuni neuroni corticali (es nei neuroni della corteccia entorinale) una breve stimolazione elettrica può produrre una scarica persistente, e una persistente attività riverberante fra popolazioni di neuroni eccitatori situati in diverse regioni cerebrali, analogamente fra popolazioni di neuroni differenti possiamo avere attività da sinapsi inibitorie.
Si tratta di un meccanismo feedback che modula l’impulso a secondo del circuito e non in relazione all’attività dei neurotrasmettitori (presenza o meno dei neurotrasmettitori nello spazio inter-sinaptico) o alla presenza o assenza dell’impulso eccitatorio, ma in base alla persistenza o meno di tale impulso nonché del circuito su cui si propaga e all’intensità minima necessaria.
La memoria operativa dipende anche dall’azione modulatoria della dopamina (D1) la quale risulta efficace per livelli intermedi di attivazione, un attivazione eccessiva (stress operativo) da luogo ad alterazioni della regolazione dopaminergica producendo deficit cognitivi (disturbi schizofrenici) quindi è sufficiente mettere un soggetto in una situazione di iper-stimolazione circostanziale in cui la memoria operativa va incontro a sovraccarico, per esempio dove la sequenza operativa risulta contradditoria e conflittuale (es mobbing) per avere degli effetti schizogeni sul soggetto.
Per fare un esempio pratico una personalità narcisistica, in una posizione di comando, potrebbe dare in continuazione indicazioni operative in una certa direzione, per poi giudicare negativamente il risultato dicendo che il processo operativo avrebbe dovuto essere interpretato differentemente, al solo scopo di mantenere una situazione di dominio, “senza merito” (maggiori abilità e competenze).
Questo dapprima attiva nei sottoposti, il circuito neuronale a livello intermedio, ma poi lo sovraccarica in modo persistente inducendo una maggiore crescita sinaptica (per esempio di circuiti in cui è coinvolta la dopamina) che però non darà luogo a una più complessa e veloce ideazione operativa, di maggiore efficacia, per il semplice fatto che a monte la personalità narcisistica metterà sempre in discussione l’operato del sottoposto che andrà incontro a un inevitabile, “riadattamento sempre più complesso ma inefficace” che produrrà disagio psichico, e potrà modificare l’espressione epigenetica del circuito neuronale coinvolto.
Tale stimolazione psico-socio-ambientale di tipo distruttivo, produce anche una memoria a lungo termine (ma di tipo operativo-disadattivo )che richiede modificazione epigenetica della struttura della cromatina, in quanto l’induzione del potenziale a lungo termine determina metilazione delle basi citosiniche che precedono i nucleotidi della guanina del DNA secondo un complesso procedimento bio chimico che reprime la trascrizione; l’esperienza socio-ambientale modifica la modulazione dell’espressione genetica, perché la proteina regolatrice di un gene strutturale non viene fosforilata e la trascrizione viene inibita.
Tali variazioni epigenetiche, nella metilazione possono essere mantenute durante la replicazione del DNA, in seguito all’attività di metiltransferasi di mantenimento del DNA e trasmesse di genitore in figlio.
Questo significa che le esperienze cognitive dissonanti dei genitori sono ereditabili dai figli, quindi che l’ereditabilità genetica per esempio: maggiore probabilità a sviluppare disturbi psichici, deriva da esperienze di violenze psichiche subite dagli antenati.
L’ippocampo riceve informazioni sensoriali multimodali e informazioni spaziali dalla corteccia entorinale, è un circuito importante per la memoria esplicita, e si attiva attraverso dei potenziali a lungo termine (fino a molte ore) che possono reclutare segnalazioni di secondi messaggeri diversi che modificano la liberazione del neuromodulatore, quindi non si tratta di produzione e concentrazione o meno di un neurotrasmettitore (ipotesi psicofarmacologica) ma di meccanismi più complessi di attivazione o inibizione di liberazione di un neuro trasmettitore in relazione a:
Da queste sintetiche sottolineazioni di natura neuro-scientifica si deduce che la prevenzione sulla salute psicologica in ambito lavorativo, familiare e sociale in genere non solo migliora la qualità della vita attuale di tutti, ma influisce anche su quella delle future generazioni.
In conclusione:
Il cervello non è come una cartina geografica con confini specifici, invalicabili, ma è organizzato in aree e circuiti neuronali (collegamenti) che hanno funzioni specifiche e inter-connesse; sono in prevalenza i collegamenti che rendono specifica una funzione cerebrale, e non: presumibili confini di gruppi neuronali, e comunque gli stessi gruppi neuronali non hanno un’unica funzione ma più spesso funzioni simili fra loro.
Il metodo cito architettonico non può rappresentare la varietà di funzioni di tutte le regioni corticali (es: Brodman) e nemmeno i loro dettagli, ad oggi per esempio aree differenziate da Brodman in 5 sotto aree, sono state ri-suddivise funzionalmente in 35 aree.
Per esempio la “formazione reticolare” una regione del tronco encefalico, ha un aspetto cito architettonico, caotico, ma si è scoperto che è organizzata in modo dettagliato in base al tipo di neurotrasmettitore: serotonina, noradrenalina, dopamina e questa funzionalità neuronale in questo punto del cervello, non è riconducibile alla forma del neurone né al circuito, in definitiva non vi è un solo modo con cui funziona il cervello, ma dipende: a volte è in un modo a volte in un altro.
E’ difficile pensare che la biologia possa organizzarsi come se ci fossero delle nazioni con confini e centri di potere precisi, questo è stato un errore interpretativo degli scienziati che proiettavano sulla realtà che studiavano, a loro sconosciuta, delle realtà antropocentriche che stavano vivendo, come l’appartenere a uno Stato (es: Cesare Lombroso) .
I neuroni delle varie regioni e il sistema nervoso di tutte le specie animali sono molto simili fra loro, animali e umani hanno le stesse aree: quelle per le emozioni, gli affetti, le rappresentazioni cognitive, le sensazioni, gli schemi motori ecc.
L’idea che gli animali non provassero dolore, non avessero emozioni, e non fossero coscienti, fu un altro errore scientifico che proveniva da una posizione antropo-narcisistica, che voleva vedere l’animale umano come conquistatore di un potere assoluto sulla creazione in virtù di una speciale amicizia con il Creatore di tutto.
Anche in questo caso è difficile poter pensare che la biologia possa funzionare su basi “linguistico/simboliche” magari sulla base di qualche testo sacro tramandato nei secoli oralmente e poi in forma scritta.
Le aree corticali dei due emisferi sono funzionalmente simili, ciò che differenzia per esempio alcune zone dell’emisfero sinistro è l’utilizzo prevalente della mano dx per scrivere, questo è un aspetto culturale non biologico, è difficile da credere che dal “punto di vista della biologia” esista una destra e una sinistra, o che dal punto di vista della fisica esista un sopra o un sotto, ma molte teorie che si sono poste come scientifiche affermavano questo errore antropocentrico, scambiando il punto di vista dell’osservatore, come realtà fenomenica.
Oggi è tramite la PET (topografia ad emissione di positroni) e l’MRI (risonanza magnetica per immagini) che possiamo analizzare le caratteristiche morfologiche del cervello, ma questo non significa che una rappresentazione ottica ci dica con certezza come funziona il cervello, vero che una forma piuttosto che un’altra avrà un senso nella dinamica complessiva del funzionamento cerebrale, ma probabilmente ogni fenomeno non è spiegabile solo visivamente per questo non vanno sopravalutate le interpretazioni basate solo sull’elaborazione di immagini, per evitare gli stessi errori che furono fatti nel passato da altri scienziati, ovvero scambiare l’osservatore (la nostra elaborazione visiva) con il fenomeno osservato.
Concludendo il nostro modo di studiare la mente e il cervello umano, per poter essere minimamente valido, deve liberarsi da pregiudizi scientifici basati su costrutti teorici tradizionali fallaci, ed essere consapevole delle tendenze antropocentriche, proiettive, autoreferenziali, narcisistiche dell’essere umano anche quando si pone come scienziato, solo in questo modo si può recuperare un po’ di “autorevolezza/credibilità” scientifica, approcciandosi con libertà e consapevolezza dei nostri limiti percettivi e interpretativi rispetto la realtà fenomenica che osserviamo, e nel caso del cervello è anche auto-