Vorrei proporre una riflessione, sull’ipotesi che il tempo e lo spazio non esistano e che siano solo una costruzione della nostra mente. Immaginiamo che ogni entità persona, animale, vegetale eccetera, sia una “individualità” costituita da elementi energetici immateriali. Queste unità energetiche esistono in una dimensione, o forse in un multiverso (molteplici universi) e permette “espressioni energetiche” a secondo del “sottoinsieme dimensionale cui appartiene”, ogni entità è in relazione con altre entità, e le sue “unità energetiche” si “accendono” o “si spengono” e quando si accendono, si accendono contemporaneamente tutte le unità energetiche che sono coerenti e possono entrare in “risonanza” con quella “determinata esperienza”. Se la nostra mente definisce in base alla posizione astronomica (che potrebbe essere solo un’esperienza energetica) un tempo e una spazio, per esempio oggi 13 maggio alle ore .. in questo posto mentre sto scrivendo, definito lo spazio e il tempo un gruppo di elementi energetici di cui siamo costituiti si “accende” ed entra in risonanza producendo un esperienza esistenziale.
Si può pensare che tutto questo sia banale e semplicistico, ma a mio parere potrebbe essere molto interessante, perché secondo questa ipotesi noi viviamo in un tempo infinito (assenza di tempo) in uno spazio infinito (assenza di spazio) e mentre la mia mente costruisce cornici spazio temporali che generano esperienza posso sfiorare cornici spazio temporali passate, e questo lo chiamiamo memoria, o future e questo li chiamiamo fenomeni trascendentali.
Per esempio: a chi non è capitato di ricordare una persona che affermasse: sarebbe morto giovane, poi questo è accaduto davvero, per poi chiedersi: ma come faceva a saperlo? O altri eventi e premonizioni di cui siamo venuti a conoscenza, o fenomeni telepatici, è vero che molto spesso si tratta di aspetti illusori, ma ci sono casi in cui non è auto inganno, e la maggior parte del sapere spirituale vanta di queste esperienze.
In altre parole la nostra esperienza empirica, che necessita di una cornice spazio temporale, potrebbe essere possibile solo se la nostra mente la definisce, tutto ciò che è definito dai sensi: vista olfatto udito… sarebbe una esperienza reale ma possibile solo all’interno di una illusione spazio temporale, e la nostra esperienza empirica sarebbe una parte minima di ciò che la nostra coscienza è in grado di percepire, l’assolutizzazione dell’esperienza empirica sarebbe in se un pregiudizio che limita la conoscenza della verità e non un metodo per distinguere il vero dal falso: dimostrazione scientifica, in un certo senso saremmo talmente immersi da pregiudizi scientifici (che fondano la propria verità sulla dimostrabilità empirica), da poterci considerare in una sorta di oscurantismo pari a quello medioevale.
8 maggio 2018 inaugurazione del “Mantova Architettura” la conferenza si tiene al primo piano del Palazzo Ducale e salendo le scale che portano al corridoio del Passerino sulla destra vedo due scritte interessanti:
1) “Circondata dalle acque del Mincio e disegnata da alture e avvallamenti colmati con riporti di terreno a cominciare dal I secolo d. C., sembra che la città in epoca romana non fosse molto più estesa di quella etrusca, forse di dimensioni modeste, parva la definì infatti Marziale nel confronto con Verona. “
2) “Risalgono al XI- X secolo a.c. le prime trace di uno stanziamento abitativo databile all’età del bronzo. Nel VI secolo a.C. sorge la città etrusca in seguito dominata dai Galli Cenomeni fino al 214 a,C. quando conquistata militarmente Mantova diventa civitas romana La parte meridionale di piazza Sordello proprio in prossimità di palazzo ducale conserva i mosaici di una sontuosa domus romana del I-II secolo dopo C.”
cercando sul web, qualcosa sulle origini di Mantova in un sito si trova questa descrizione:
circondata dalle acque del Mincio e disegnata da alture e avvallamenti colmati con riporti di terreno a cominciare dal I secolo d. C., sembra che la città in epoca romana non fosse molto più estesa di quella etrusca, forse di dimensioni modeste, parva la definì infatti Marziale nel confronto con Verona.
Mantua Vergilio gaudet, Verona Catullo (a)
Tantum magna suo debet Verona Catullo, (b)
Quantum parva sua Mantua Vergilio
Ovidio
(a)Amorum, lib. III, 45.
(b)Epigr., XIV, 495.
mentre dei lati nord-nord/est ancora nulla di sicuro si conosce; probabilmente in antico doveva esservi una vasta palude che sola forse isolava la città.
Una vasta palude che isolava la città? Di certo non poteva essere un luogo attraente per un insediamento urbano, chi mai fra i nostri antenati ambiva di andare a vivere in un luogo malsano dove la morte poteva sopraggiungere in anticipo a causa di qualche malattia contratta proprio a causa della stagnazione palustre?
Inizio a pormi qualche domanda e i miei pensieri vanno a una ipotesi, ventilata da due psichiatri di “psichiatria democratica” (Pirella e Caprino) che riguarda la giurisdizione nell’antica Roma e il tipo di condanne inflitte per determinati reati:
Tipi di condanne nell’antico impero romano.
La deportatio fu spesso detta exsilium e, ristabilita la pena di morte, fu considerata come la maggior pena dopo di questa, specialmente se perpetua; poteva anche essere inflitta a tempo.
La relegatio in insulam (e Mantua era una insulam), nell’antico ordinamento giuridico romano era la pena a cui erano sottoposti i colpevoli di determinati delitti come l’adulterio, lo stupro, il lenocinio(sfruttamento prostituzione) , l’omicidio preterintenzionale(a seguito di azione violenta) causato per l’uso di filtri amorosi o abortivi o per maltrattamenti.
La Deportatio in insulam era una delle pene previste dal diritto penale romano nella fase della cognitio extra ordinem: consisteva nel soggiorno coatto temporaneo o perpetuo in una località isolata e comportava, oltre alla perdita della cittadinanza romana (status civitatis), la confisca totale o parziale dei beni. Queste ultime conseguenze distinguevano la deportatio dall’affine relegatio in insulam. La relegatio in insulam si applicava soprattutto contro le donne (e i loro amanti) responsabili di adulterio.
E in un sito si legge:
Del resto gli scavi archeologici ad oggi non hanno infatti restituito alcuna documentazione gallica che non sia dell’avanzata fase della romanizzazione (I secolo a. C.), (http://www.mantovafortezza.it/it/)
Ma certo ecco come poteva essere nato, più realisticamente, l’insediamento in un luogo tanto insalubre e inospitale, poteva essere nato come penitenziario romano .
Primo giorno di Mantova Architettura, la sua inaugurazione, la mostra fotografica con la sua narrazione, che non ha attirato il mio interesse, ma mi ha permesso di osservare i resti di affreschi di demolizioni massicce di chiese (nelle stanze adiacenti la mostra), per esempio nel periodo fascista, (di cui nel 1921 la distruzione della Chiesa di San Domenico) e poi queste scritte sui muri del Palazzo Ducale… il figlio di una divinità che fonda una città?
E allora voglio scrivere qualcosa sull’altra Mantova, su quella che è ignorata da certo marketing turistico, che non sia una edulcorazione inverosimile, ma qualcosa di intellettualmente più accettabile.
Pensiero critico ala riscossa.
La produzione e lo smaltimento dei rifiuti coinvolge diversi aspetti:
Le priorità in ordine d’ importanza a mio parere contemplano: al primo posto l’aspetto igienico sanitario in quanto i costi collettivi che ne deriverebbero potrebbero essere imponenti; anche l’accessibilità ai punti di raccolta è importante, per evitare comportamenti sociali individuali non desiderabili, poi raccolta, stoccaggio, riciclo, e per ultimo andrebbe a mio parere posto l’aspetto estetico che coinvolge la visibilità o meno della presenza dei rifiuti lungo le strade urbane, avvertita come antiestetica: brutta.
In alcune città la scaletta delle priorità è stata invertita, mettendo l’aspetto estetico al primo posto e quello igienico all’ultimo, è curioso constatare come questo sia avvenuto per esempio dove il sindaco era un architetto, come se la professione o il lavoro svolto dal sindaco di una città potesse influire sul buon senso e la logica decisionale.
Com’è possibile che in nome dell’estetica urbana i cittadini siano costretti a tenere le immondizie nelle proprie abitazioni per una settimana o per più tempo se nella finestra oraria settimanale (due ore) non hanno la possibilità di essere nella propria abitazione per poter spostare i propri rifiuti sulla strada, questo causa condizioni abitative anti igieniche indubbie.
Inoltre si rilevano anche condizioni anti igieniche urbane, i rifiuti sulla strada attraggono maggiormente animaletti di vario genere, e la risposta delle amministrazioni comunali è stata in termini di uccisione degli animaletti tramite esche avvelenate, ma l’animaletto avvelenato poi si sposterà assieme al veleno ingerito compromettendo un ecosistema urbano già ampiamente alterato.
Da questo si evince come una certa architettura ignori le componenti biologiche, naturali, sanitarie, psico-individuali e psicosociali, e rischiando con il proprio intervento su ipotesi estetiche di dubbia condivisione: togliere i cassonetti dei rifiuti perché sono brutti, va a complicare ampiamente la vita di tutti.
Questa è quella che si potrebbe definire “l’architettura ottusa” degli angoli retti, dei colori uniformi, delle suddivisioni geometriche che richiedono che un albero se cresce al di fuori di certa linearità venga eliminato, un architettura dove tutto ha una linearità statica e controllabile ma più vicina alla cosi detta: pulsione di morte che alla pulsione di vita.
Un’ architettura che avverte come disturbante la libertà della natura di crescere in base alle condizioni climatiche di sopravvivenza, e si rende intollerante a una natura che si permette di ignorare ortogonalità, uniformità e linearità e che pertanto va o soppressa o “rieducata”.
Ma un architettura più dinamica, vitale, e pertinente all’esistenza umana e alle sue relazioni con la natura, piuttosto che a geometrizzazioni astratte, la troviamo in Giappone, dove i manufatti abitativi si integrano con la natura e la biologia, non sempre ma quelli tradizionali della cultura scintoista di certo si.
Eppure durante le esposizioni italiane (mostre), che raccontano dell’architettura giapponese, troviamo tutti d’accordo sul fatto che la qualità abitativa è decisamente più alta, ma questo non fa modificare una certa cultura architettonica italiana dove sembra che il bisogno di controllo magari derivante da qualche fobia prevalga sull’evidenza che: vivere in rispettosa serenità con il mondo naturale è di gran lunga più semplice ed edificante.
Ritorniamo alla produzione e lo smaltimento dei rifiuti urbani;
una soluzione utopica, urbanistico architettonica, a imitazione di quella naturale potrebbe essere realizzata con una specie di rete a notevole profondità nel sottosuolo, dove i rifiuti andrebbero incontro a una serie di modificazioni biochimiche fino a essere trasformati ed emessi come sostanze energicamente riutilizzabili, o inerti, una specie di intestino della città, in altre parole una città concepita più come essere vivente che come sepolcro imbiancato. Indubbiamente questo richiederebbe molto ingegno, la capacità di riconoscere tutte le fasi biodegradabili, gli insetti che le accelerano, le sostanze da immettere che le trasformano, che le rendono più fluide ….. un equipe di ingegneri , biologi, chimici, naturisti, architetti, gli architetti dovrebbero individuare il funzionamento cittadino, quali rifiuti vengono prodotti, i comportamenti collettivi reali e i bisogni collettivi a cui dare una risposta, si passerebbe da una architettura muraria a un architettura sociale dove la consapevolezza dei comportamenti umani sostituisce l’ortogonalità e l’uniformità muraria.
Ma passando dall’utopia alla realtà i cassonetti dei rifiuti non sono più antiestetici di un automobile parcheggiata lungo le strade del centro storico, e se c’è tanta tolleranza per questi oggetti inquinanti che come scatolotti di plastica stazionano ore lungo le vie della città non vedo perché non ce ne debba essere altrettanta per i cassonetti dei rifiuti.
critiche all’architettura mantovana
Dopo la metà del ventesimo secolo in Italia i manufatti architettonici hanno visto un crescere esponenziale incontrollato e speculativo, dando luogo a una devastazione ambientale senza rispondere in modo organico e sensato ai bisogni di abitazione umani.
Negli anni settanta e ottanta l’esuberanza edilizia si imponeva nel nome del profitto, guadagnandosi l’appellativo di “tempo delle grandi cementificazioni”.
L’approccio ragionieristico all’abitare umano imponeva logiche commerciali disconoscendo la logica urbana intesa come crescita armonica e pertinente, imponendo una crescita di manufatti edili, incontrollata e avulsa dal contesto ambientale e dei suoi ecosistemi, è il tempo dei geometri, delle grandi imprese edili e del profitto, è il tempo della distruzione degli ecosistemi in nome della speculazione.
Tanta barbarie edilizia ci ha lasciato edifici che come fantasmi del passato, sono simboli dell’egoismo umano e della sua follia distruttiva, cui gli architetti stanno tentando di dare risposte bizzarre conducendo l’architettura a una sorta di soggettivismo estetico.
Ancora trionfa l’egoismo umano ora diventato narcisismo, atteggiamento di molti architetti che trasferiscono dall’arte figurativa all’architettura l’approccio artistico soggettivistico con la propria visione estetica personale, ignorando il fatto che un dipinto lo si può facilmente spostare ma un edificio magari di dieci piani, non solo non lo si può spostare ma anche demolirlo diventa costoso, in altre parole viene imposta un estetica architettonica soggettiva a un numero elevato di persone che al massimo possono scegliere di passare o non passare da quel luogo per evitare di dove subire la bruttezza di tanta imponente soggettività.
A Mantova inizia a maggio il festival dell’architettura, con la pesantezza che contraddistingue l’architettura contemporanea, un’ architettura e un restauro, che sono esteticamente autoritari.
Ma questo momento di dibattito sull’architettura, potrebbe essere utilizzato per una riflessione che riguardi un architettura utile, gentile, attenta ai bisogni dei suoi fruitori umani e animali, una architettura che dialoga con la natura e non la distrugge, un architettura che non produce emarginazioni urbanistiche o cancellazioni della storia del luogo solo perché i progettisti e i restauratori non la conoscono, un architettura ecosistemica, sociale che valorizza chi la abita e non chi la costruisce, un restauro che non è cancellazione dello stile dei manufatti rinascimentali, trasformati in manufatti contemporanei nei toni e nei colori, senza dover affrontare la fatica di doverli costruire, architetture che cambiano, di fatto, il nome del loro progettista, un “Leon Battista Alberti” che diventa un “Mastro Geppetto” di turno, che però si gonfia dell’alone geniale albertiano; un restauro che non sia una compulsione igienica che evoca i tempi del fascismo, ma che sia espressione di affetto e rispetto per le origini della città.
Sempre più spesso si scambiano i piani fenomenologici:
neurologia,
psicologia,
biochimica,
pedagogia,
sociologia.
Per quanto dubiti di poter con una metafora far comprendere meglio quanto sia importante che ognuno si limiti al proprio campo di competenza, senza interferire con la psicologia, tento ugualmente.
La metafora della distribuzione di acqua e dell’acquedotto:
ora immaginiamo che un sistema per la distribuzione di acqua, sia composto sostanzialmente da: fiumi, laghi, tubazioni, acqua, chiuse, dighe e centrali di distribuzione.
Riguardo le tubazioni dobbiamo controllare che non si rompano, altrimenti c’è dispersione di acqua, le tubazioni sono il sistema nervoso, ciò di cui si occupano i neurologi.
Riguardo le chiuse e le dighe dobbiamo controllare che garantiscano una pressione uniforme di acqua, le chiuse e le dighe sono le sinapsi e la biochimica, di ciò si occupano gli psichiatri.
Riguardo l’acqua dobbiamo controllare il suo stato, che non sia ghiacciata perché bloccherebbe il fluire, che non sia bollente perché aumentando di volume aumenterebbe la pressione e romperebbe l’acquedotto in alcuni punti, che non evapori perché diminuirebbe di volume e non arriverebbe ovunque; di questo se ne occupano gli psicologi e gli psicologi psicoterapeuti.
Riguardo le modifiche del progetto dell’acquedotto quando si fanno bisogna controllare che non producano danni in termini di portata e pressione di acqua; di questo se ne occupano i pedagogisti.
Riguardo i fiumi i laghi i mari, i temporali, dobbiamo solo sapere che ci sono e come funzionano, cioè prevedere che il nostro acquedotto non abbondi o scarseggi di acqua, e di questo se ne occupano i sociologi, i quali ci possono precisare quando l’acqua è salata o dolce o inquinata o purissima…
Riguardo le centrali di distribuzione dobbiamo controllare che tutti i dispositivi funzionino ma soprattutto che quanto rilevato dai dispositivi di allarme venga correttamente interpretato, di questo se ne occupa la diagnosi.
Ora, per esempio, il problema è questo: se un dispositivo segnala un calo di pressione:
il neurologo dice è perché le tubazioni sono rotte, e ci mette anni per trovare dove sono rotte.
Lo psichiatra dice è perché ci sono dighe aperte che dovrebbero essere chiuse e ci mette anni a provare ad aprire e chiudere dighe nel tentativo di riportare la pressione al giusto livello (psicofarmaci)
Il pedagogista dice è perché ci vuole una modifica del progetto e ci mette anni a tentare delle modifiche al fine di risolvere il problema (formazione, apprendimento)
Lo psicologo dice è perché l’acqua è ghiacciata in qualche punto o è evaporata per questo c’è un calo di pressione nel sistema e ci mette anni a indagare dove l’acqua è ghiacciata o evaporata.
Il sociologo dice è perché non piove da due anni, nella zona nord ovest del Messico, ma tutti rispondono ma qui l’acqua ancora c’è basta farla confluire nell’acquedotto.
Nessuno che si chieda se il calo di pressione sia avvenuto improvvisamente, quale sia la temperatura esterna, se avviene in modo ricorrente, perché per esempio è ovvio che se avviene in modo ricorrente riguarda lo stato dell’acqua ed è un problema psicologico e non altro, le tubazioni non si rompono e aggiustano da sole e nemmeno le chiuse (qui sto forzando la metafora per dire quanto sia fallace il sistema diagnostico attuale).
Ma la cosa più irritante per uno psicologo e vedere che le tubazioni vengono rotte per scoprire la causa, le chiuse eliminate per vedere se si risolve il problema, anche se la pressione dell’acqua magari a fasi alterne si abbassa, quindi ovvio che si tratta di un problema psicologico.
Ma la cosa più inaccettabile è sentire che neurologi, psichiatri, sociologi, pedagogisti si mettano a parlare di probabili cause sullo stato dell’acqua, quando non distinguono un ghiacciolo da un te caldo, quando scambiano la memoria con l’attenzione, le emozioni con gli affetti, il pensiero onirico con la creatività, ma perché non restano su cose che conoscono senza inventarsi delle psicologie strane che già fra psicologi abbiamo un po’ di problemi a separarle e ci studiamo sopra per anni, e se la si finisse di sostituire l’incertezza caratteristica dello psicologo con facilonerie psicologiche magari in stile counselor?
La psicologia è complessa, faticosa da studiare e se applicata male distrugge l’esistenza di una persona, credetemi, come l’acqua è informe è informe anche la mente, ci vuole competenza e molta sensibilità per sentire le minime differenze di temperatura dell’acqua.
La psicologia non si può inventare né intuire né apprendere in modo perfettamente mnemonico, richiede una predisposizione all’analisi, alla coerenza teorica, all’osservazione, molta sensibilità, costanza e molta esperienza.
Le politiche diffusive della microsoft, di dispositivi informatici per scopi commerciali: tecnologia a basso costo, hanno permesso a tantissime persone di poterne usufruire, ma questa innovazione epocale, in se utilissima, si è diffusa velocemente, favorendo enormi affari produttivi, di dispositivi, il che è più che positivo, ma questo è accaduto senza tener conto dell’impatto cognitivo che l’uso della tecnologia avrebbe avuto sulle persone, senza che venisse generato prima, una specie di filtro che le potesse proteggere da un adattamento al digitale informatico, digitale informatico che può compromettere, in particolare nei nativi digitali, la capacità di complessità e di profondità tipiche del pensiero umano.
In altre parole il processo ideativo che la mente segue mentre utilizza un dispositivo informatico, è completamente diverso da quello che la mente segue mentre analizza la realtà e mentre fa astrazioni cognitive di tipo predittivo.
Il processo ideativo di tipo informatico è “etero-cognitivo” cioè la mente non è la principale protagonista nel produrre passaggi cognitivi, è il dispositivo informatico che obbliga la mente a seguire i processi ideativi per cui è stato programmato.
Il processo ideativo di tipo analitico-astratto sulla realtà, è “omo-cognitivo” è la mente che analizza la realtà tangibile, formula nessi causali, e formula predittività.
Nel processo ideativo informatico, i nessi causali non possono essere rappresentati, in quanto si tratta di una “realtà virtuale” che cessa di esistere con la messa in pausa del dispositivo informatico.
Pertanto se la realtà presente in modo preponderante nella mente delle persone è data dalla realtà rappresentata dal dispositivo informatico, la capacità di formulare nessi causali reali e predittivi nel tempo si riduce, l’ansia, oggi molto diffusa è probatoria di questo assunto.
In altre parole per una serie di fattori come per esempio:
la semplificazione del linguaggio semantico a favore della preponderanza del linguaggio emotivo e manipolativo (social network) la riduzione motoria nell’interazione con ciò che rappresenta la realtà soggettiva (solo le dita della mano a fronte di tutte le possibilità motorie del corpo) il tipo di attenzione che da diffusa diventa prevalentemente focalizzata ecc…..
in altre parole quindi: la capacità di formulare nessi causali e predittivi della realtà, viene sostituita con un “assorbimento passivo”, da una rappresentazione soggettiva di una realtà semplificata, superficiale, scollegata, stocastica, quindi senza caratteristiche consequenziali (nessi causali).
Queste caratteristiche sono talmente diffuse da essere diventate una sorta di pandemia tecnopatologica, in quanto è vero che il web permette un confronto con una realtà internazionale ma è anche vero che tale realtà internazionale è rappresentata dal web in modo approssimativo, superficiale, manipolato e tangibilmente decontestualizzata.
Una delle possibili conseguenze è che nell’amministrazione politica, la decisionalità sia disancorata dalla realtà contingente, e produca senza consapevolezza alcuna, problemi enormi ai cittadini che la subiscono.
Questo aspetto, troppo sottovalutato, da forza alle culture ipercontestualizzate, e ipertangibili, come la cultura islamica, che offre realtà riduttive piene di pregiudizi perché troppo ancorata alla localistica tangibilità sensoriale che sappiamo essere riduttiva se interpretata in modo assolutistico.
Se la cultura occidentale non inizia a essere consapevole della sua “pandemia tecnopatologica” con la violenza e la morte la cultura islamica non faticherà ad affermarsi, portandoci tutti indietro di una quindicina di secoli.
Ad oggi tutto questo viene peggiorato dalle regole informatiche SEO, che obbligano a linguaggi sempre più generalizzati e semplificati, la forza della cultura occidentale era nella sua cultura nel suo “pensiero” modo di ragionare, se gli occidentali da soli sviliscono questo aspetto tagliano il ramo su cui sono seduti e si espongono alla conquista islamica.
Proseguendo con l’analisi sull’influenza della tecnologia sul comportamento umano, prendiamo in esame le caratteristiche del linguaggio informatico con cui la maggior parte di noi interagisce quotidianamente.
Il linguaggio informatico è un linguaggio programmato a priori, quindi ciò che non è stato programmato non può essere eseguito.
Pertanto è una modalità statica ferma, a differenza del linguaggio umano che interagisce in modo creativo, e adattivo, il linguaggio informatico non si adatta ed è un linguaggio morto, una volta programmato resta uguale.
Questa mancanza di adattamento obbliga chi usufruisce di tecnologie ad adattarsi, pertanto è l’individuo che nell’interazione con la tecnologia deve ridurre le proprie potenzialità di interazione creativa minimizzando la propria ideazione su ciò che la macchina permette di eseguire.
Le conseguenza sono che i nessi associativi tipici dell’ideazione umana vanno via via ad estinguersi, la modalità semantica, deduttiva del ragionamento logico, vengono sostituite da un modalità algoritmica che permette solo l’esecuzione programmata ignorando il contesto in cui questo avviene.
In altre parole è come se avessimo un ideazione fatta di finestre distinte fra loro che si aprono o si chiudono in modalità esecutive programmate a priori, che non richiedono un perché , ne un analisi delle conseguenze, dell’esecuzione della funzione programmata.
Da ciò ne deriva che il comportamento umano potrebbe diventare esecutivo, senza che ci sia una analisi delle conseguenze (responsabilità) delle associazioni con altri aspetti contestuali (dissociazione) costruito a priori secondo modelli prefissati di “estetica emotiva ed affettiva” privi di una vita interiore consapevole e profondamente sperimentata.
Chiaro va analizzato anche il ruolo del linguaggio umano evocato da grafemi (scrittura) o immagini, questo lo affronterò in un capitolo successivo, in cui ne indicherò limiti e possibilità di sviluppo.
esemplificazione di un algoritmo.
Con questo mio articolo vorrei porre l’attenzione su un modus mentale, molto diffuso, che deriva dall’uso eccessivo di tecnologia informatica.
Questo stile cognitivo in particolare è diffuso fra i nati: dall’inizio del ventunesimo secolo, cioè da quando la tecnologia informatica era disponibile fin dai primi anni di vita in varie forma e facilmente accessibile da tutti.
La tecnologia informatica utilizza un linguaggio algoritmico, questo è un linguaggio solo di tipo esecutivo, ogni successione permette qualche opzione e feedback al fine di arrivare all’esecuzione finale che la macchina garantisce, un calcolo matematico, un collegamento web, ecc… il tutto è mediato, nel rapporto uomo macchina, da elementi singoli (grafici o fonetici) che rappresentano il linguaggio umano, da ricordare che il linguaggio umano è per lo più appreso e non si trova biologicamente rappresentato nel dna o secondo altre ipotesi rappresentato solo in “potenza”.
Da queste premesse si evince che l’interazione uomo macchina, o interazione uomo – uomo mediato dalla macchina (esempio social network), permette solo alcuni tipi di ideazione e elude altri, nell’elusione sistematica si arriva a conclusioni soppressive di rappresentazioni ideiche come la rappresentazione della coscienza etica, dell’empatia, e della realtà non rappresentabile con il linguaggio quella empirica, che viene evocata dal linguaggio solo se a monte c’è stata una esperienza sensoriale (tangibile) della realtà.
Attenzione però, i contenuti che riguardano la coscienza etica, l’empatia, il principio di realtà, non sono scomparsi dal linguaggio strumentale (il linguaggio delle macchine, pc, cellulari) ma sono scomparsi dalla rappresentazione mentale delle persone (almeno in parte) in quanto non sostenuti dall’esperienza e dalla condivisione empirica di principi etici e empatici.
Il linguaggio algoritmico della tecnologia informatica, assicura simulazioni sempre più sofisticate di queste funzioni cognitive, ma di simulazioni si tratta e non di realtà mentale, quindi si trovano sempre nell’area linguistica e non nelle “aree non” linguistiche.
E qui è necessario precisare che il cervello non funziona prevalentemente in base a specificità funzionale di determinate aeree anatomiche, ma sulla base di collegamenti fra diverse aree e integrazione di diverse aree con trasmissioni di potenziali a velocità così elevate che nessuno strumento sarebbe in grado di rilevare, in altre parole RMN o TAC è più facile che offrano degli abbagli scientifici piuttosto che dei dati su cui poter fare deduzioni.
Ritornando alle simulazioni emotive e affettive che la tecnologia informatica offre, qui il punto va chiarito, si tratta di simulazioni disancorate dalla realtà empirica (esperienza) e pertanto SONO DELLE FINZIONI, non esistono sistemi a specchio (teoria dei neuroni a specchio) che garantiscono che un linguaggio algoritmico (matematico) si possa trasformare in linguaggio affettivo, emotivo, etico, il linguaggio matematico crea finzioni affettive, codificate in modo condiviso, che nulla hanno a che vedere con la realtà mentale che riguarda l’esperienza di relazioni fra persone, l’esperienza dell’interazione tangibile con la realtà naturale. Questo è lapalissiano provate a osservare la differenza in un concerto fra quello che appare sullo schermo e quello che potete vedere direttamente sul palco.
E’ su queste “finzioni simulative” che si svolgeranno le varie relazioni fra gruppi di persone, la mente già adattata al linguaggio algoritmico (per esempio i nativi digitali) produrrà simulazioni ovvero come in una rappresentazione teatrale le persone fingeranno empatia, etica, ma non avendo interiorizzato nulla di questo, mostreranno nel tempo delle risposte empatiche incoerenti, è solo dall’incoerenza empatica, etica e di coscienza della realtà naturale, che si può capire questo fenomeno.
Da queste considerazioni si evince che l’uso continuativo e prevalente di tecnologie informatiche riduce sensibilmente la rappresentazione mentale della coscienza, ossia del se, in altre parole tendono a scomparire EMPATIA ETICA PRINCIPIO DI REALTA’, avremo nella mente di queste persone delle simulazioni perfette di queste funzioni mentali ma la simulazione non è la realtà, quindi in contesti che richiedono risposte di tipo empatico etico o di analisi della realtà avremo delle risposte di finzione avulse dal contesto reale.
In altre parole stanno scomparendo empatia, etica, principio di realtà, con la conseguenza che i comportamenti saranno sempre più narcisistici, privi di vera empatia, di vero senso di responsabilità e di capacità di valutare le conseguenze reali delle proprie azioni sulla realtà, si tratta di vere e proprie psicopatologie per esempio sadismo, analfabetismo emotivo e affettivo, molto diffuse, ma il fatto che siano prevalenti non le rende meno psicopatologiche, il nazismo fu una psicopatologia condivisa molto diffusa su più nazioni (almeno Germania e Italia ) . Per concludere sottovalutare le TECNOPATOLOGIE oggi significa bruciare almeno tre prossime generazioni e spingerle verso un futuro poco piacevole.
A mio parere come spesso accade in campo medico scientifico, il fenomeno cosi detto della perdita di memoria negli anziani è stato troppo banalizzato e semplificato.
In realtà la “perdita di memoria” è quello che vede l’osservatore giovane con la sua struttura cognitiva di giovane adulto.
Un fenomeno psicologico come la presunta perdita di memoria non può essere valutato in modo medico, in modo oggettivo, in quanto la mente non è tangibile, un fenomeno psicologico può solo essere dedotto con argomentazioni interpretative complesse.
La psicologia ci dice che abbiamo una specie di magazzino in cui vengono in qualche modo depositati vari ricordi.
La psicologia dice anche che il numero di informazioni memorizzate in un bambino e in un adulto è significativamente diverso, nell’anziano questo magazzino è molto più ampio rispetto un giovane adulto.
La psicologia dice anche che l’abilità di rievocare queste informazioni dipende da numerosi aspetti, per esempio l’aspetto emotivo risulta essere inibente se le emozioni sono intense, l’aspetto cognitivo risulta essere inibente se le informazioni ricevute sono in contrasto fra loro (questo ovviamente è molto più presente nell’anziano in quanto avendo più informazioni ha maggiore probabilità che esse possano esserci memorie incoerenti fra loro), l’aspetto affettivo risulta essere inibente e talvolta distorcente se le informazioni memorizzate riguardano fatti dolorosi non ben elaborati e via dicendo l’elenco è molto lungo.
Tornando alla memoria degli anziani, i neurologi affermano che questa è decaduta in quanto con la strumentazione in loro possesso (RMN TAC) il cervello appare meno denso e dove c’è minore densità ci sono meno neuroni e dove ci sono meno neuroni ci sarebbe perdita di funzioni cerebrali.
Alcuni psicologi concordano con questo modo di interpretare la cosa altri no.
Io per esempio non concordo in quanto a mio parere la natura ci ha dotato di una base anatomo-fisiologica molto più abbondante di quella che ci serve, e questo in tutti i sistemi, il sistema respiratorio ha una capacità di scambiare ossigeno con un range molto ampio che va dal campione olimpionico (massima capacità) all’impiegato delle poste (minore richiesta in quanto l’apparato muscolare è in uno stato di semiriposo), stessa cosa per l’attività metabolica, muscolare, cardiaca (gettata cardiaca)ecc.
Per il cervello è stato dimostrato che funzioni molto complesse possono richiedere per esempio una percentuale molto bassa di attivazione neuronale (per es calcoli matematici), e che i circuiti neuronali per la maggior parte non sono specifici e la dove vi sono ampie lesioni i tessuti cerebrali non lesi possono adempiere alle funzioni che sembravano perse come per esempio il linguaggio.
Da questo (ma anche da altri fattori che non ha senso evidenziare per non appesantire la lettura di un articolo che vuole essere divulgativo) si deduce che non ci sia un rapporto fra quantità (densità del tessuto cerebrale) e funzioni cognitive possibili.
Ma allora perché dal giovane è più facile avere un informazione che ha memorizzato mentre nell’anziano è più difficile?
Per esempio un numero di telefono, che fino a qualche anno prima l’anziano ricordava con facilità.
Prendiamo come esempio un numero di 10 cifre (il n° di un cellulare), essendo maggiore di 7 cifre non può essere ricordato nella memoria a breve termine, ma va memorizzato in quella a lungo termine.
Escludiamo che questo numero abbia qualche valenza emotiva, affettiva, cognitiva che ne inibisca la rievocazione.
Se chiediamo questo numero a un giovane anche dopo un anno il giovane lo rievoca facilmente e senza sforzo (per esempio il numero di telefono della propria famiglia) mentre è più improbabile che l’anziano lo riesca a rievocare, però poi accade che nell’anziano in un altro momento, per esempio il giorno dopo se lo ricordi, quindi non possiamo dire che è una memoria che è andata persa, possiamo solo dire che per un anziano è più difficile rievocare quando vuole, un informazione memorizzata precedentemente.
Questo è il punto, non possiamo dire con certezza che c’è stata una perdita di memoria ma solo che c’è stata una perdita della capacità di riportare in memoria un informazione.
Possiamo affermare che nell’anziano ci sono molte più informazioni e quindi possono essere simili fra loro quindi più difficilmente discriminabili, nel giovane questa discriminazione è più facile in quanto ha in memoria meno informazioni.
Possiamo affermare che nell’anziano emergono spontaneamente dettagli di memoria (per esempio autobiografici) mentre nel giovane la rievocazione è più volitiva, cioè decido di ricordare una cosa lo posso fare, nell’anziano questo è deficitario, ma nell’anziano emergono frequentemente e spontaneamente dei ricordi che l’anziano non ha voluto ricordare, e questo è deficitario nel giovane.
I ricordi che emergono spontaneamente possono avere la caratteristica di attivare una ricerca di significato (stile cognitivo semantico).
I ricordi che richiedono una rievocazione volitiva possono avere la caratteristica di mettere in atto un comportamento o una azione precisa volta a uno scopo.
Quindi possiamo solo dedurre che lo stile cognitivo in un giovane, quindi anche il suo modo volitivo di rievocare informazioni, lo predispone a comportamenti attivi, fare delle cose; in un anziano il suo avere rievocazioni spontanee non volute, ed avere un sistema meno efficace nella rievocazione volitiva, lo inibisce nei comportamenti immediati di azione, ma lo predispone a un comportamento di riflessione sul senso delle cose.
A mio parere da tutto questo non si può dedurre un deterioramento cognitivo nell’anziano ma solo un cambiamento cognitivo, come è nella natura delle cose, come accade anche nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, lo stile cognitivo cambia notevolmente e allora perché non dovrebbe cambiare dall’età adulta all’età per cosi dire avanzata?.
Se consideriamo un ottica strettamente monetaria ed economica: produrre grandi quantità di cose che risultino attraenti da potenziali acquirenti; lo stile cognitivo del giovane adulto (azioni efficaci orientate a uno scopo “produttività”) potrebbe trovare una sua più ampia realizzazione e desiderabilità sociale.
Se consideriamo un ottica sociale più di tipo etico, lo stile cognitivo del giovane se affiancato allo stile cognitivo di tipo semantico dell’anziano (qual è il senso di fare una cosa e quale cosa scegliere) trova una sua maggiore realizzazione.
Con tutta probabilità la capacità di discernimento e la capacità volitivo/attuativa non possono coesistere in un solo stile cognitivo, del resto la natura obbliga ad alleanze con esseri viventi molto diversi da noi (ambiente animali) per quale motivo non dovrebbe obbligare ad alleanze fra stili cognitivi in età molto diverse fra loro, mentre l’economia se si vuole scegliere questa strada, obbliga a omologare in flussi di valore finanziario, controllabili, tutto l’esistente, pertanto lo stile semantico diventa qualcosa di ostativo, chiedersi il perché delle cose rende più difficile l’omologazione.
In conclusione la scienza se tale vuole essere dovrebbe prendere le distanze dalle caratteristiche sociali del suo tempo: modello economico versus modello etico, e non prestarsi per esempio con presunte patologie deteriorative che e a volte essa stessa determina magari senza rendersene conto o al fine di un più agevole adattamento all’orientamento storico sociale.