Attualmente nei corsi di laurea troviamo sempre di più il termine “scienze cognitive” , se andiamo all’origine del termine “psicologia cognitiva” lo troviamo verso la metà del ‘900, utilizzato da un gruppo di psicologi americani per indicare lo studio dei processi cognitivi: percezione, memoria, ragionamento, linguaggio.
L’intento espresso ed esplicito degli psicologi cognitivi, è quello di affermare e dimostrare che possono essere studiati in modo scientifico e non invasivo, i processi psicologici pertanto non visibili, questo in antitesi con gli psicologi comportamentisti (Pavlov, Skinner..) che facendo largo uso di sperimentazioni animali, dicevano di essere i soli ad avere un metodo scientifico dimostrabile in quanto basato sull’osservazione tangibile.
A monte del comportamentismo c’era l’antagonismo verso la psicoanalisi, ovvero verso la pretesa degli psicoanalisti, di affermare la scientificità della loro teoria anche se l’inconscio non è dimostrabile.
Gli psicologi cognitivisti si pongono in modo critico verso la psicoanalisi, in quanto priva di costrutti scientificamente dimostrabili, e in modo opposto ai comportamentisti in quanto il modo di dedurre il funzionamento psichico studiando il comportamento degli animali in determinate condizioni sperimentali, quindi non naturali, ne altera il processo psichico e pertanto non lo rende più studiabile scientificamente.
I cognitivisti non riconoscono che lo studio sugli animali possa in qualche modo fornire informazioni utili per comprendere la psiche umana, sia perché gli animali sono psichicamente differenti sia per l’impossibilità di eliminare tutte le variabili intervenienti, che influiscono sui loro processi psichici, non ultima la presenza dell’uomo stesso che osserva il loro comportamento, oltre alla difficoltà di poter effettuare queste osservazioni nei loro habitat abituali.
In 40 anni il cognitivismo, produsse delle evidenze scientifiche indubitabili mettendo in crisi i costrutti sperimentali comportamentistici e psicoanalitici, producendo, anche se privo di consistenti finanziamenti per le sue ricerche, delle ottime evidenze che spiegano il funzionamento della psiche umana, e questo sulla base della passione per la verità di questi psicologi.
Alla fine del’900 la reputazione scientifica dei cognitivisti aumentò tantissimo, si divulgarono molto in fretta i loro costrutti e ovunque si utilizzava questo termine “cognitivo” “cognitivismo” per parlare di psicologia, ma dalla fine degli anni ’90 ad oggi abbiamo assistito ad un progressivo oscuramento dei modelli scientifici cognitivisti originali, e a una divulgazione imponente di modelli psicologici misti, al loro interno molto contradditori, etichettati come “cognitivismo” o “scienze cognitive”.
Ora se questo rimanesse nella cultura sociale e popolare, dove non è richiesto di mantenere una reputazione di “scientificità” o qualità della conoscenza, non avrei nulla da dire, ma molto spesso così non è.
Non sono andata ad indagare in tutti i corsi di laurea in psicologia presenti a livello internazionale, e nemmeno in tutti i corsi di laurea in psicologia italiani, ma ho avuto modo di frequentare un corso di laurea magistrale in Psicologia, in un ateneo dell’Emilia Romagna, come studente, ateneo che denominava il proprio corso di laurea “… scienze cognitive” e sono rimasta attonita.
Il primo aspetto che mi ha lasciato perplessa è stato che in nome di una presunta interdisciplinarietà, l’80% dei docenti non avesse una Laurea in Psicologia.
All’interno degli psicologi ancora non c’è chiarezza su dove inizino e terminino i confini per uno studio obiettivo della psiche, mi chiedo come i non psicologi, tanto più se privi di esperienza professionale come psicologi, possano avere maggiore o almeno uguale chiarezza su tale oggetto di studio “psiche umana” avendo loro studiato e approfondito altri oggetti di studio: biologia, filosofia, pedagogia, medicina….
Un altro aspetto che mi ha lasciato attonita, è stato il modo di affrontare, di alcuni docenti, l’argomento “psiche umana”, per esempio: partendo da esperienze e studi medici di evidente impostazione comportamentistica, denominandoli “scienze cognitive”, esponendoli in lezioni frontali, argomentando i loro studi comportamentistici con concetti di filosofia, storia dell’arte, psicologia del senso comune, e altre discipline umanistiche trattate a mio parere in modo superficiale e approssimativo, per fare un esempio il concetto di intersoggettività dal punto di vista filosofico non ha nulla a che vedere con il concetto di soggettività dal punto di vista del cognitivismo, e questi venivano concettualmente scambiati come se fossero la stessa cosa, oppure scambiare le “risposte movimento- nelle macchie nel test di Rorschach” come qualcosa che avesse attinenza con i “neuroni specchio”, che sono solo neuroni polifunzionali, si attivano in presenza di diversi processi cognitivi (la maggior parte dei neuroni è polifunzionale).
Concludendo, con questo sintetico e divulgativo articolo del mio blog, voglio iniziare ad evidenziare che escludere gli psicologi dalla docenza di un corso di laurea, o da altri settori di pertinenza psicologica, modificare linguisticamente i termini rendendo “cognitivistico” ciò che “cognitivo” non è, creare congruenze forzate snaturando l’organicità di altre discipline conoscitive, forzando dei miscugli “psico-filosofici” “psico-biologici” “psico-pedagogici” “psico-medici”, non è una buona strada per aumentare la reputazione di una realtà accademica, semmai è più probabile che si crei una sorta di “decadentismo accademico”, lo stesso che storicamente abbiamo visto nel periodo pre-fascista, periodo che ha visto in Italia, dopo un iniziale entusiasmo verso la psicologia, un moltiplicarsi di cattedre universitarie, e poi un progressivo annientamento della psicologia che come è noto per sua natura è una disciplina conoscitiva molto refrattaria a regimi dittatoriali.
One thought on “Il cognitivismo e il camaleontismo dei comportamentisti”
XZPb3se7o2KCPosted on 9:22 am - Feb 22, 2017
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